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Elogio del bar..
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLE CHIACCHIERE DA BAR - “NIENTE EGUAGLIA QUELLO SPAZIO VOLUTO DAL DIO DEL CASO: SI PARLA, SI FA AMICIZIA MA LA CONVERSAZIONE RESTA SEMPRE IN QUEL LIMBO DI UNICA VERITÀ: LA VITA È BREVE E FORSE È BREVE INCONTRARSI”
In un suo testo inedito la scrittrice Goliarda Sapienza tesse l’elogio del più simbolico tra i luoghi pubblici dominato dalla legge del dio della leggerezza: “Tutto quello che nasce in quel luogo incantato deve restare nell’ambito del caso. Spesso poi ci si rincontra, e allora è come se ci si conoscesse da anni”…
Tratto dal libro
“Elogio del bar”
di Goliarda Sapienza pubblicato da “la Repubblica”
Io, che vengo da una città dove ci sono più bar che panetterie, vi posso assicurare che niente uguaglia quello spazio — povero o ricco che sia — voluto dal misconosciuto dio del Caso. Lui, il caso, giovinetto aereo impalpabile, ha avuto in dotazione da madre natura l’arma di fomentare sguardi, sussurri, gesti, parole amicali e perché no schiamazzi, urla, invettive e perché no — penso abbattendo dentro di me la nemica autocensura che tanto affligge le nostre menti cresciute in democrazia — anche l’urlo, lo schiaffo, il pugno insomma: anche lo scontro è vita.
Ma questo non si può dire, perché… Ecco se io, adesso, proprio adesso che alzando gli occhi da questo foglietto su cui vi scrivo e incontrando lo sguardo di una signora che — non capisco se è azzurro o verde Nilo, non importa, più grande d’un cielo all’alba — incuriosito dalla mia persona intenta a vergare parole, mi sta fissando, ecco se io lo dicessi a questa bella signora dallo sguardo adolescente, sono sicura che la sua mente democratica si rivolterebbe gridando l’orrore per la violenza della mia affermazione.
Sono tornata con gli occhi al mio foglietto, e mi guarderei bene dal pronunciare parola se lei non insistesse a scrutarmi tanto che io, che come avete capito sono seduta in un bar, e quindi preda consenziente del suo dio e padrone che spinge a tutte le arditezze, sono costretta a posare la sana penna e a parlare. Non l’avessi mai fatto. Gli occhi celestini man mano che le parlo si sono addensati in una pietra grigio-verde. «Lei è una fascista e guerrafondaia » mi ha sussurrato alla fine, tornando sdegnata al suo cappuccino e cornetto mentre io — ringraziando il dio Bar dell’occasione di misurare il mio sentire con qualcuno che non essendomi amico ha qualche possibilità di dirmi la sua verità senza paura — torno rinfrancata al mio passatempo preferito: scrivere sciocchezze insensate.
bar
BAR
Ha l’aria preoccupata la signora, dopo il suo scontro con la sconosciuta dal viso dolce che tanto l’aveva incuriosita e dopo delusa; ma anche pacificata, come dopo un bel coito riuscito proprio bene. Lei avrebbe ragione nel suo essere pacifista a tutti i costi, se non ci fossero di mezzo la natura la fame il coito che (è noto) sono sempre “scontro” e diventano qualcosa di melenso degno solo… di chi? Non lo so di chi, e non mi va nemmeno di immaginarlo. Odio la noia, e l’idea di un mondo tutto rosa confetto mi spaventa più di passare una notte in treno con un assassino (mi è accaduto, è per questo che ne parlo).
L’assassino in cui mi imbattei quella notte era un assassino per amore d’utopia, in questo caso un fascista, e come tutti gli esseri dolci e miti inclini all’utopia aveva voce e sentimenti soavi. Quello che più mi attrasse della sua persona fu quando alla stazione, avvicinandosi al mio tavolino (ecco il dio del bar o dio degli incontri che si rifà vivo!), mi interpellò direttamente senza preamboli melensi chiedendomi: «Lei è di Roma?». «Certo» risposi. «Posso sedermi e offrirle qualcosa? Ho perso il treno per Roma e mi annoio».
bar
BAR
Un assassino che si annoia mi sembrò straordinario, non ce li hanno sempre illustrati come esseri in preda ai rimorsi, il dolore del loro operato, le angustie di un destino maligno, eccetera? «Anch’io mi annoio» dissi, e mi offrì un caffè. «Lei mi conosce?». «Certo» gli risposi «la sua fotografia ci ha ossessionato una trentina d’anni fa quasi come quella di Gassman!». Rise di un riso muto e comunicativo oltre ogni dire, rispondendo: «Lei ha memoria».
La sua osservazione non richiedeva risposta e tacqui, osservando che nel ridere muto confidenziale e suadente s’era venuto a sedere non davanti a me ma al mio fianco, così vicino da costringermi forse a formulare con lo sguardo un interrogativo, una domanda sorpresa. Al che lui fissandomi negli occhi ormai a pochi centimetri dai miei disse: «Si meraviglia del mio bisogno di starle vicino?». Anche questa domanda non richiedeva risposta: infatti dopo una pausa pesante di qualche secondo fu lui a rispondere: «Mi scusi, il fatto è che venticinque anni di carcere ti danno il vizio di fare domande retoriche… La verità è che la folla mi disturba un poco».
Mi trovai a pensare che anche questo disturbo lo aveva acquisito in carcere, così glielo domandai con la stessa semplicità che da lui avevo appena imparato, e lui: «Oh no! Questo è un disturbo che ho sempre avuto. A quello che ricordo fin da bambino». La risposta mi fece ridere apertamente mentre pensavo: un assassino che teme i posti affollati! Questo è proprio qualcosa che non avrei mai immaginato.
Goliarda Sapienza
GOLIARDA SAPIENZA
«E questo tuo modo (eravamo passati al tu: due ore al bar di una stazione rendono come quattro o cinque anni di conoscenza) di osservare la gente l’hai appreso in carcere, penso… ». «No» rispose lui come sempre con una franchezza disarmante, e continuò con l’ovvietà di chi sta parlando del suo lavoro. «No. Per uccidere — specialmente non in divisa — sono stato cinque anni nella legione straniera, e parlo con cognizione di causa… per uccidere in tempo di pace per le strade del tuo paese e nei tuoi vestiti di tutti i giorni è fondamentale conoscere profondamente le pulsioni, e la mente degli altri: pulsioni emotive e grado di intelligenza sono la spia di quanto il nemico, o quello che immagini sia il nemico, possa essere rapido nel difendersi o nel fuggire».
Goliarda Sapienza elogio del bar
GOLIARDA SAPIENZA ELOGIO DEL BAR
Spostando lo sguardo dall’oscurità — è un fantasma, pensai — sul viso del mio compagno incontrai i suoi occhi calmi, scuri di notte lucente, spalancati. Non guardava me, ma a una spanna almeno al di sopra della mia testa. «Soffri d’insonnia?» chiesi. «No. Parlare con te mi interessa più del sonno… anche perché sai domandare». «Se è così, dimmi cosa hai imparato dal carcere». «La ribellione e il desiderio di avere un figlio, cosa che non mi era mai capitata». «E l’hai avuto dopo?». «È da lei che sto andando, da lei a casa. È una bambina e ha già tre anni, e curiosamente ha gli occhi azzurri, i capelli… le manine… le fossette nelle guance e…». E fu così che il mio assassino cominciò a parlare della sua figliola, delle sue grazie, della sua intelligenza, dei progetti sul suo futuro, proprio come un padre qualsiasi incontrato per caso in un bar.
Alla stazione di Roma, davanti al treno ormai fermo e ansante come un animale stanco ma felice dopo una bella lunga corsa, ci lasciammo senza fare ricorso a quelle solite idiozie come scambio di indirizzi, promesse di rivedersi e cose del genere.
Gli incontri nei bar hanno questa chiarezza di fondo: si parla, si fa amicizia, a volte anche l’amore ma con la consapevolezza che è la legge del dio della leggerezza che lo domina. Tutto quello che nasce in quel luogo incantato deve restare nell’ambito del caso. Spesso poi ci si rincontra, e allora è come se ci si conoscesse da anni, ma la conversazione resta sempre in quel limbo di unica verità: la vita è breve e forse è breve incontrarsi, è bello trovarsi, ma è consigliabile non cadere troppo nel serioso… scherzo!
(Tratto da Elogio del bar, Elliot Edizioni, 2-014. Per gentile concessione dell’editore)
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