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arte e spettacolo in primo piano
Commenta l'arte....e lo spettacolo che gli artisti fanno di se..
L’ARTE NELLA ROCCIA - L’ARTISTA RA PAULETTE HA SCAVATO E DECORATO CON LE SUE MANI LE CAVERNE DI SABBIA DEL NEW MEXICO - SARÀ UN LUOGO DI RICERCA PERSONALE, DOVE OSPITARE EVENTI ARTISTICI E PELLEGRINAGGI SPIRITUALI
Per oltre dieci anni, Ra ha perlustrato senza sosta, ha scavato, raschiato e decorato, le meravigliose caverne piene di fasci di luce che si nascondono dentro le montagne. Il prodotto finale è un capolavoro unico, creato dalla forza e dalla persistenza di due singole mani che nel corso degli anni si sono scavate un pozzo fatto di pure meraviglie...
Con uno zaino, un picco e una carriola, l’artista americano Ra Paulette si è addentrato per 1,6 km dentro le luminose grotte arenarie a nord del New Mexico. Per oltre dieci anni, Ra ha perlustrato senza sosta, ha scavato, raschiato e decorato, le meravigliose caverne piene di fasci di luce che si nascondono dentro le montagne. Il prodotto finale è un capolavoro unico, creato dalla forza e dalla persistenza di due singole mani che nel corso degli anni si sono scavate un pozzo personale di pure meraviglie.
Paulette è sempre stato colpito dal rapporto tra uomo, anima e natura. Una passeggiata solitaria in un bosco diventa un pellegrinaggio introspettivo. Le grotte sono il luogo ideale per dare vita a trasformazioni surreali. Sono destinate a stimolare il “rinnovamento spirituale”. Ciascuna camera possiede le proprie caratteristiche uniche, s’intrecciano stili decorativi e giochi di luce.
Al termine del lavoro, le grotte diventeranno la sede per eventi artistici condivisi e un luogo appartato di scoperta personale.
ARTICOLO 2
A SAN FRANCISCO LA RETROSPETTIVA DI KEITH HARING, TRA OMINI COLORATI CHE DENUNCIANO DANZANDO, MURALES FALLICI, AUTORITRATTI E OMAGGI AGLI AMICI WARHOL E BASQUIAT
Da vent’anni la “west coast” non gli dedicava una grande mostra. Il suo stile è celebrato per la sua radicale semplicità, sebbene i suoi messaggi siano ben più complessi. Le sue opere ci sono familiari perché lui le sparse dappertutto, per renderle accessibili a tutti...
da www.economist.com
Da vent’anni la “west coast” statunitense non vedeva una grande mostra di Keith Haring, quindi l’iniziativa del “Young Museum” di San Francisco, intitolata “Keith Haring: The Political Line, fino al 16 febbraio 2015, è davvero benvenuta.
La street art di Haring era ispirata dall’attivismo sociale e dalla sua forte identità. Negli anni ’80 si dichiarò apertamente gay e morì di AIDS nel 1990, a soli 31 anni. Lavorò molto a New York ma aveva un legame particolare con la città di San Francisco, culla della liberazione sessuale. In mostra ci sono 130 opere, tra pitture, sculture e graffiti, tutte che esplorano la sua risposta al nucleare, alla disuguaglianza razziale, agli eccessi del capitalismo, al degrado ambientale. Altre si occupano di temi più personali.
Le sue opere sono parte della cultura visuale della Bay Area. Fece murales per il club“DV8” e per il “South of Market Childcare Center“, la sua scultura “Three Dancing Figures” (1989) si staglia sul “Moscone Convention Center” e il trittico “The Life of Christ” è installato presso la “AIDS Chapel” della “Grace Cathedral”.
I suoi temi erano serissimi, ma le sue colorate figure in movimento, che correvano e danzavano, infondevano una sensazione di leggerezza. La prima cosa che i visitatori vedranno è una fluorescente Statua della Libertà in vetroresina, seguono pezzi sessuali come il gigantesco fallo di “The Great White Way”, i più comici come “Andy Mouse”, mezzo Topolino e mezzo Andy Warhol, suo caro amico, e l’omaggio a Basquiat “A Pile of Crowns for Jean-Michel Basquiat”. All’uscita c’è “The Last Rainforest”, fatto nel 1989, poco prima che morisse.
Haring appare spesso nella mostra, tra autoritratti e vibranti polaroid con gli amici, incluse
Grace Jones e Madonna. Il suo stile è celebrato per la sua radicale semplicità, sebbene i suoi messaggi siano ben più complessi. Le sue opere ci sono familiari perché lui le sparse dappertutto, per renderle accessibili a tutti.
ARTICO LO 3
Nel 1990 uscì il primo numero di “MORE”, rivista lettone erotica che mise in prima pagina i diritti della comunità LGBT. L’idea era di liberarsi dell’Unione Sovietica e di superare l’articolo 124, che criminalizzava l’omosessualità, per intraprendere un cammino verso l’Europa.
“MORE” fece scalpore. Non si era mai vista prima una pubblicazione che parlasse così apertamente di sesso. A crearla fu il giornalista Vladimir Linderman, che fece subito molti soldi e attirò boss mafiosi che vollero unirsi all’impresa. Linderman vendette il giornale a metà degli anni Novanta ed entrò in politica. Trasferitosi a Mosca, divenne uno dei capi del movimento anti-Putin, per sei anni sfuggì alla polizia e alla fine fu rimandato in Lettonia.
L’ironia è che Linderman, 56 anni, lo scorso dicembre ha lanciato una raccolta di firme a sostegno del referendum anti-gay. Si è trasformato in moralista che combatte l’omosessualità, in un uomo del Cremlino. Nelle due ore e passa di intervista in un hotel della capitale lettone, racconta: «Disprezzo qualsiasi ideologia che mostri segni di totalitarismo. “MORE” era la risposta alla repressione sovietica e la legge anti-gay è la risposta al nuovo totalitarismo portato avanti dalle forze liberali dell’Occidente. Talvolta la mia biografia confonde anche me. Sono stato padre della rivoluzione sessuale e ora sono il padre della controrivoluzione sessuale. Il sistema comunista era sgradevole e non artistico. Credevo che il nuovo sistema capitalistico permettesse maggiore creatività, ma a vent’anni dall’indipendenza lettone, non vedo segni di miglioramento».
“MORE” era un misto di pornografia e di satira. Apriva dibattiti sul sesso come “Playboy” fece nell’America anni Cinquanta. Ma il suo significato era più profondo. Era il dito medio alzato contro le strutture sociali comuniste, era il vibratore agitato sulla faccia di Lenin. Infatti sul primo numero misero un fallo accanto a un estratto della biografia di Lenin.
In quegli anni ’90 Linderman finì a capo del Partito Nazional-Bolscevico, branca lettone, che aveva per simbolo la falce e il martello dentro un cerchio bianco su sfondo rosso, molto simile allo stemma nazista. Il leader dei “Nazbols” era Eduard Limonov, che considerava il movimento come un’estensione della sua vita letteraria, una specie di progetto artistico concettuale. Come Linderman, Limonov si fece un nome scioccando con il sesso le sensibilità sovietiche. Anzi, andò molto oltre, scrivendo il romanzo autobiografico “Io, Édichka”, pubblicato nel 1979, dove raccontava anche di aver scopato uno sconosciuto di colore nel suo appartamento a New York.
Linderman scriveva per la rivista di Limonov chiamata “Limonka”. Nel tempo i
“Nazbols” lettoni divennero sempre più militanti, passarono guai giudiziari e furono accusati di terrorismo. Nel 1999 arrivò Putin, il nuovo nemico, che per restaurare il vecchio ordine fece subito arrestare gli oppositori politici. In quegli anni i gay non erano il suo primo obiettivo. Lo divennero nel 2012, dopo le proteste che gli fecero temere di perdere il potere. Dichiarandosi difensore dei valori nazionali, li definì pederasti e pervertiti.
I “Nazbols” invece furono nel mirino di Putin sin dal primo giorno. Nel 2007 fu dichiarato gruppo fuorilegge, ma già nel 2001 Limonov fu mandato ai lavori forzati per aver tramato l’invasione del Kazakistan e nel 2003 Linderman fu arrestato, accusato di detenzione di esplosivi al fine di sovvertire il sistema politico.
Tornato in Lettonia si sta dedicando a bandire la “gay propaganda”: «Non sono stato mandato da Putin. Non sono io che vado incontro al Cremlino, è il Cremlino che viene incontro a me». Sostiene che la sua crociata LGBT sia il genuino tentativo di riunire russi e lettoni contro i valori stranieri.
ARTICOLO 4
SI PUÒ ESSERE MITI DELLO SPORT MA NON I PIÙ BRAVI NEL PROPRIO SPORT? SÌ, ALÌ NE È L'ESEMPIO - NESSUNO COME LUI HA SAPUTO ESALTARE IL VALORE DEL PERSONAGGIO SFRUTTANDO LO SPORT - “IO IL PIÙ GRANDE? L'HO DETTO PRIMA DI SAPERE CHE ERA VERO”
Nel libro di Rino Tommasi un’analisi intrigante: Ray Sugar Robinson e Joe Louis sono stati pugilisticamente più forti, tecnicamente più completi di Alì ma il pugile americano è stato il soffio di vento di una grande epoca - Alì oggi è una montagna barcollante, un’icona che va oltre lo sport, un sontuoso combattente contro il Parkinson....
Riccardo Signori per "il Giornale"
muhammad ali 8
MUHAMMAD ALI 8
C'è sempre una buona ragione per parlare di Muhammad Alì, fors'anche perché non ce ne sono di altrettanto valide per parlare della boxe di oggi. Qualcuno si preoccupa di lui, vedendolo sempre in punto di morte e le figlie si affannano a smentire. Altri per ragioni più incoraggianti.
Quest'anno il coro ha intonato gli osanna ai 40 anni trascorsi dal suo match con George Foreman, passato alla storia come “Rumble in the jungle”, uno dei più grandi eventi mediatico-sportivi. Alì il grande buono, Foreman il grande cattivo, l'Africa, i fratelli neri, l'odio ai bianchi, una miscela di scenari sociali, il dittatore Mobutu ingabbiato dall'astuzia di Don King: c'era di tutto per renderlo indimenticabile. Se poi sia stato un match vero, concluso come vorrebbe la legge dello sport o con qualche trucco di fondo non lo sapremo mai.
Alì superman resistente, Foreman il re dal ko facile che si lascia sfinire dalla tattica di un uomo di gomma e si arrende alla stanchezza: mah! Alì, prima e dopo George, ha vacillato sotto colpi meno potenti. Alì ha vinto i match che dovevano alimentare il business, soprattutto quando lui era il buono e l'altro il cattivo: parlano le sfide con Liston, stesso copione con Foreman. Che poi pensasse che «la boxe è tanti bianchi che guardano due neri picchiarsi», è altro affare.
Alì oggi è una montagna barcollante che non cammina più, ma un grande personaggio che va al di fuori dello sport, un sontuoso combattente contro il Parkinson. E George Foreman è stato, più a lungo, pugile di successo, e tuttora piazzista di se stesso, meraviglioso incantatore nel raccontare storie di boxe e vendere prodotti a milioni di persone nel mondo.
Poi c'è l'altro aspetto: Alì è stato davvero il più grande? L'interessato ha risposto per tempo, a modo suo. «Sono il più grande l'ho detto prima di sapere che era vero».
E Rino Tommasi, giornalista e intenditore di boxe, nonché ex organizzatore quindi uno che ha messo mano, soldi e occhio su questo universo, lo ha riproposto con una analisi raffinata e intrigante. Si parte dal titolo del suo libro. «Muhammad Alì. L'ultimo campione. Il più grande?» (edito Gargoyle, euro 40) appunto con un punto di domanda che, almeno, ti concede una possibilità di sfuggire all'ineluttabile asserzione, come fosse un credo.
Certo, Alì è stato il soffio di vento di una grande epoca. Forse non la più grande, ma quella che ha rivoltato l'universo della boxe, abitudini e riti grazie a un campione-personaggio (certamente più personaggio che campione) partito come Cassius Clay e trasformatosi in Muhammad Alì, in onore di un mondo islamico al quale ha regalato miglior faccia.
La copertina del libro fa tirare un sospiro di sollievo, come a dire: guardate cosa vi siete persi! Punteggiata dai cartelloni pugilistici che erano il pane, amore e fantasia di quel mondo. Le foto esplicano bellezza tangibile del personaggio, il percorso narrativo riesplora un pizzico di cultura della boxe, personaggi di altre epoche che si sono incrociati con Alì (Joe Louis e Ray Robinson) e la possibilità di rivederlo attraverso gli occhi di un giornalista. Ma poi quella domanda (davvero il più grande?) cerca risposta seguendo un filo logico. Si può essere davvero i “più grandi” facendo parte di uno sport di squadra? Difficile. La grandezza deve esaltare la solitudine dell'impresa.
sport, ma non i più bravi nel proprio sport? Alì ne è l'esempio. Ray Sugar Robinson e Joe Louis sono stati pugilisticamente più forti, tecnicamente più completi. E, allora, perché Alì dovrebbe essere il più grande? Magari più grande di Maradona (sport di squadra) e Carl Lewis, di Michael Jordan (sport di squadra) e Abebe Bikila o Eddy Merckx? Perché nessuno come lui ha saputo esaltare il valore del personaggio, del periodo storico, del saper sfruttare lo sport per andare molto più in là.
L'analisi porta a pesare un ballottaggio finale tra Jesse Owens, che vinse davanti al Fuhrer durante le Olimpiadi di Berlino 1936, immenso per quel che rappresentava il periodo storico e l'impresa, e appunto Alì. Ovvero due esponenti delle qualità top dello sport: la corsa, la cosa più natur
L'analisi porta a pesare un ballottaggio finale tra Jesse Owens, che vinse davanti al Fuhrer durante le Olimpiadi di Berlino 1936, immenso per quel che rappresentava il periodo storico e l'impresa, e appunto Alì. Ovvero due esponenti delle qualità top dello sport: la corsa, la cosa più naturale per l'uomo, e la forza, il mito del più forte. Una domanda si potrebbe riprodurre anche nella vita: vince chi corre più veloce o chi è più forte? L'autore tira la conclusione. Comunque sia, due neri che si sono battuti davanti a una marea di bianchi.
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