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07/06/2022
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arte e spettacolo in primo piano..
L'ALTRA META' DELL'ARTE : DALLA TATE AL MAXXI PASSANDO PER IL MART LE COLLEZIONI SON SEMPRE ROBA PER UOMINI. ALLE ARTISTE RAPPRESENTATE DA UNO SCARSO 20% NON RESTA CHE RIVENDICARE QUOTA ROSA SHOCKING
Da una ricerca dello IULM di Milano le acquisizioni femminili puntano sempre sulle solite Louise Bourgeois, Marina Abramovic, Cindy Sherman. Fantastiche autrici spesso però rappresentate con pochi insufficienti esempi della più celebrata maturità. A differenza dei maschi di cui spesso si documenta l'intero arco della carriera, compresi incerti e faticosi inizi...
E' ancora lunga la strada per le ragazze creative. L'arte come la guerra è ancora una roba per maschi. I dati cantano. Nei musei contemporanei la prevalenza della creatività virile è schiacchiante.
Un esempio per tutti: la Tate Modern (nata in tempi in cui la parità avrebbe dovuto essere un dato acquisito), vantauna collezione firmata all'86 per cento da artisti maschi e solo per il 14 % donne. Se poi si contano le opere si va di male in peggio: 96% contro il 4%. E di poco consola il fatto che i lavori di mano femminile siano stati praticamente tutti acquistati a partire dal 2008. Chi lo vede come positivo segnale di un crescente interesse del mercato e del museo verso le donne artiste , non ci spiega come mai il numero delle opere maschili è cresciuto da 144 a 743 mentre quelle femminili son passate solo da 71 a 155.
Neanche in patria le cose vanno meglio. Al Maxxi, che deve la sua collezione quasi completamente all'anno della sua fondazione, il rapporto è 73% a 27%.
Al Mart dove la collezione è anche dovuta non solo ad acquisti ma anche a prestiti richiesti dalla direzione del museo (femminile peraltro: Gabriella Belli prima e Cristiana Collu dopo) le cose vanno anche p
nato nel nostro paese il rapporto si ferma al 33% di presenze femminile tutte o quasi acquisite negli ultimi cinque anni.In numeri assoluti:108 i lavori di artisti e solo 54 di artiste.
Dati sconcertanti emersi da una ricerca dello IULM di Milano che segnalano peraltro come la fantasia nel caso delle acquisizioni femminili sia davvero scarsa. Sempre le solite 4o intime: Louise Bourgeois, Marina Abramovic, Cindy Sherman.. fantastiche autrici spesso però rappresentate con pochi insufficienti esempi della più celebrata maturità. A differenza dei maschi che soprattutto nel caso delle super star vedono documentato l'intero arco della carriera, compresi spesso gli incerti e faticosi inizi o i tromboni e ripetitivi esiti.
Le donne invece o bucano lo schermo da sole, o certo nessun museo le aiuterà a farlo. Su di loro non si rischiano volentieri i budget, da vive, giobvani e vitali fanno paura e generano sospetti, si preferisce semmai rivalutarle in tarda età o meglio post- mortem come figure eccezionali da tirar fuori dal cono d'ombra. Spesso grazie a mostre e cataloghi firmati dalla mano e dall'acuto acuto intuito di un curatore nato uomo.
i artiste eccezionali è pieno il mondo. E ancor più grave perché omette, dimentica, trascura e censura la capacità delle donne di costruire immaginario. Il quale a volte è molto più potente della guerra. E forse per questo i maschi se lo tengono stretto. Nell'arte come nel cinema, roba da maschi anche quello.
Dati tratti da :
http://www.corriere.it/reportages/cultura/2014/donne_arte/
L’arte delle donne – Le artiste nelle collezioni museali contemporanee è un progetto nato nell’ambito del Dipartimento in Arti e Media dell’Università IULM di Milano e coordinato da Vincenzo Trione, direttore del Dipartimento?La ricerca è curata da Anna Luigia De Simone, ricercatore in storia dell’arte contemporanea presso la Facoltà di Arti, turismo e mercati -IULM
con la collaborazione di Lucrezia Di Donfrancesco Giulia Gregnanin e Anna Zuliani studentesse del Corso di Laurea Magistrale.
NON SONO SOLO CANZONI RENATO ZERO HA FATTO DEL SUO CORPO UN’OPERA D’ARTE - 2. LA MOSTRA CHE IL MUSEO MACRO DI ROMA DEDICHERÀ DAL 18 DICEMBRE AL 22 MARZO AL RE DEL POP NON SARÀ UNA SEMPLICE SFILATA, DI COSTUMI DI LUSTRINI E PIUME DI STRUZZO, DI SPEZZONI DI CONCERTI E PROVINI DEI SUOI DISCHI, DI RITRATTI DELL’ARTISTA IN FORMA DI EX-VOTO MA QUELLA DI “ACCENDERE UNA LUCE DEFINITIVA SUL CANTANTE PIÙ ORIGINALE E PROVOCATORIO DEL NOSTRO TEMPO, UN TESTIMONE FORMIDABILE DI 40 ANNI DI STORIA DEL NOSTRO PAESE, DAGLI ANNI DI PIOMBO AGLI ANNI DEL VUOTO DI SENSO” - 3. ''LA SUA FORZA, PER IL FILOSOFO E STORICO DEL DESIGN ALDO COLONETTI, È “NELLA CAPACITÀ DI ZERO DI MESCOLARE KITSCH E NORMALITÀ, TRASGRESSIONE E TRADIZIONE, LA TRASGRESSIONE DEI SUOI COSTUMI E LA TRADIZIONE DEI TESTI DELLE SUE CANZONI” -
Stefano Bucci per "La Lettura-Corriere della Sera"
Se il triangolo non è soltanto «la figura geometrica con il minor numero di lati» ma può invece nascondere un’infinità di possibili ambiguità, anche la mostra che il Museo d’arte contemporanea di Roma (il Macro) dedicherà dal 18 dicembre al 22 marzo a Renato Zero — che aveva celebrato proprio la complessità del triangolo sessual-amoroso-libertino in una canzone del 1978 — non sarà una semplice parata di memorabilia, di costumi pieni di lustrini e piume di struzzo, di «scalette» degli spettacoli, di «lacche» dei suoi dischi in vinile, di ritratti dell’artista in forma di ex-voto.
Zero, questo il titolo della prima retrospettiva dedicata a Renato Fiacchini in arte Renato Zero (nato a Roma il 30 settembre 1950) si propone un obiettivo a più largo raggio: «Accendere una luce definitiva sul cantante più originale e provocatorio del nostro tempo, un testimone formidabile di quarant’anni di storia del nostro Paese, dagli anni di piombo agli anni del vuoto di senso». La sua forza, per il filosofo e storico del design Aldo Colonetti, è «nella capacità di mescolare kitsch e normalità, trasgressione e tradizione, la trasgressione dei suoi costumi e la tradizione dei testi delle sue canzoni».
Zero da sempre rivendica il primato di aver raccontato nelle sue canzoni (titoli come Il Carrozzone, I migliori anni della nostra vita , Mi vendo, Vecchio, Marciapiedi ) «l’uomo, le sue maschere, la differenza, gli ultimi, sdoganando temi difficili come la droga, il controllo delle menti, l’identità di genere o la depressione, il degrado delle periferie urbane», restando sempre e comunque libero «da tessere politiche e schieramenti identitari, sessuali, culturali».
Demetrio Paparoni (teorico d’arte contemporanea e curatore che sta per pubblicare con Skira un volume che raccoglie le sue conversazioni con Arthur Danto) conferma questa sua capacità: «L’identità italiana è quella di Fellini, di Schifano, di Jacovitti e di Zero, il primo vero front man del nostro Paese, la dimostrazione vivente che la musica è l’arte più astratta, ma la corporalità del musicista, di Zero come di David Bowie, è più eclatante e evidente di quella di un pittore o di uno scultore. Zero è come Gilbert & George che hanno fatto dei loro corpi un’opera d’arte».
L’effetto finale, lo stesso cercato da artisti come Renè Magritte o Loris Cecchini, è spesso quello dello spaesamento: a lungo percepito come omosessuale in virtù dei suoi travestimenti, dei testi di alcune canzoni, dei suoi atteggiamenti, nel novembre del 2010 «aveva sorpreso molti dichiarando apertamente di essere eterosessuale».
In questo Zero può contare su un grande alleato: la foltissima e agguerrita comunità di fan (chiamati prima zerofolli e poi sorcini) che sul sito della mostra (www.renatozero.com) hanno già da tempo iniziato un vero conto alla rovescia.
«Sono soddisfazioni anche per noi che lo seguiamo da quarant’anni» spiega ad esempio Elisa su Twitter a proposito dell’esposizione romana mentre Rox (ancora sulla social wall) chiede consigli più pratici: «Ragazzi, mi sapete dire la differenza tra il biglietto open e l’altro?». Una rete «personale e interattiva» che ha anticipato internet.
David Bowie, Beyoncé, Annie Lennox, fino a Björk — alla quale il Moma di New York dedicherà una grande rassegna dall’8 marzo al 7 giugno che potrà contare sulla collaborazione di personaggi come Matthew Barney: la mostra del Macro (ideata da Simone Veneziano con Vincenzo Incenzo, Ennezerotre e Tattica che pubblica anche il catalogo) rinnova l’idea di collaborazione tra arte e «musica leggera» già sperimentata con successo alla Triennale Bovisa di Milano che nel 2009 aveva ospitato Il gesto del suono dedicata a Demetrio Stratos, al Victoria & Albert di Londra che nel 2008 aveva invece celebrato «Les Supremes», il gruppo di Diana Ross o (ancora) all’Abba Museum di Stoccolma interamente dedicato al gruppo svedese di Waterloo e Mamma mia (che a settembre ha festeggiato i suoi primi 500 mila visitatori dall’inaugurazione nel maggio 2013).
Anche se a Roma saranno prima di tutto le canzoni di Zero a parlare: il visitatore entrando in una cabina potrà ascoltare hit come Supermarket o Spiagge «come non le aveva mai sentite prima, dall’ispirazione al provino al risultato finale». Un cantiere diviso in sei mega ambienti «da vivere come capsule del tempo» (a fare da filo conduttore ci sarà il battito del cuore di Renato) all’insegna dell’interazione, mille metri quadri ad alta tecnologia «che non dovranno mai diventare un reliquiario o un accumulo di gadget e feticci»; piuttosto «un viaggio a ritroso dal Cielo alla Montagnola» (il quartiere dove Zero è cresciuto). E tra le tante cicatrici del nostro Paese.
«È uno dei più grandi personaggi della musica italiana — assicura Luca Beatrice che nel 2007 aveva pubblicato con Baldini Castoldi Dalai la biografia Zero —, paragonabile a Luigi Ontani, per quel suo gusto del travestitismo e della performance, ma con uno spirito molto pirandelliano».
Istrionico e trasgressivo, ironico e profondo, amato e odiato, l’artista romano (alle spalle anche la partecipazione come comparsa nel Satyricon e nel Casanova di Fellini) conferma ancora una volta di non provare alcun timore reverenziale nei confronti della cultura cosiddetta «alta» tanto che sulle pareti della Pelanda (il Centro di produzione culturale nel quartiere del Testaccio scelto come spazio per la mostra) ha voluto le parole di intellettuali come Pasolini per spiegare «il potere magico e abbiettamente politico» delle canzoni, lo stesso potere su cui è basato quel progetto, finora irrealizzato, per una cittadella della musica che dovrebbe chiamarsi Fonopoli come l’associazione culturale no-profit di cui Zero è presidente onorario.
Proprio a Fonopoli si lega un altro tassello importante della mostra romana, che prevede una serie di «eventi ambulanti» all’esterno della Pelanda (cominciando probabilmente dal pubblico in coda per l’ingresso come nella performance Good Feelings in Good Times di Roman Ondak): il concorso per gli studenti delle scuole secondarie «che vuole promuovere e valorizzare i contenuti, le strutture e il valore sociale dei testi di Renato Zero».
Cinque tracce ricavate da cinque canzoni per parlare di disagio, migranti, ecumenismo, condizione infantile, drammi esistenziali (in palio un premio di mille euro). E tra i giurati anche Marco Travaglio, lo stesso Travaglio che la Rete da tempo ripropone in un video mentre, lo scorso febbraio, balla scatenato al ritmo di Madame durante un concerto di Zero a Livorno.
LED ZEPPELIN FOREVER – UNA RARA INTERVISTA A JIMMY PAGE, IL CHITARRISTA CHE HA INVENTATO L’HARD-ROCK E I RIFF PIU’ ECCITANTI: “NOI NON METTEVAMO SUL MERCATO SINGOLI MA SOLO IL LAVORO COMPLETO. NOI OFFRIVAMO UN CONCETTO”
Settant’anni, nonno, Jimmy Page si racconta senza filtri: “Non sapevo leggere uno spartito. Ho dovuto imparare. La passione per le forze occulte: “La musica parla da sola e basta. Avevo una libreria esoterica ma la chiusi: molti clienti erano convinti di avere un diritto divino a non pagare i libri”…
Articolo di Jesús Ruiz Mantilla per “El Pais” pubblicato da “la Repubblica” (Traduzione di Luis E. Moriones)
Una leggenda con il codino, un musicista oscuro, schivo, uno dei primi a usare la chitarra con due manici. A suo tempo molto dedito alle droghe, segnato dalla tragedia, Jimmy Page non è più soltanto uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi. Oggi è un artista minuzioso, un perfezionista consapevole del ruolo che lui e la sua band hanno nella storia della musica. A settant’anni confessa che quando formò i Led Zeppelin, il gruppo che inventò l’hard rock soffuso di psichedelia e che indicò la strada dell’heavy metal, aveva le idee molto chiare.
Non fu affatto un’improvvisazione, ma un progetto meditato: l’obiettivo era diventare una star di livello mondiale. Mosse i suoi primi passi in uno studio di registrazione come turnista e poi entrò a far parte degli Yardbirds, dove suonarono anche Eric Clapton e Jeff Beck. Ma già sapeva che il suo gruppo sarebbe andato oltre, verso territori inesplorati del suono.
E così fu. I Led Zeppellin aprirono la strada verso una libertà sconosciuta e ispirarono storie di ogni genere. Prima gli innumerevoli pestaggi da parte delle loro guardie del corpo. Poi la morte, nel 1977, quando aveva solo sei anni, del figlio di Plant: ucciso, dice la leggenda, da un rito satanico con abusi sessuali. E infine, tre anni più tardi, quella del batterista John Bonham: affogato nel proprio vomito dopo una sbronza monumentale e per lui tutt’altro che rara. La band si sciolse.
L’appuntamento è in un hotel di Kensington poco distante dalla Royal Albert Hall. Page, oggi nonno, ex-tossicodipendente, messi via gli allori si sente responsabile di un’eredità artistica che ha appena finito di riordinare con la rimasterizzazione dei primi cinque album dei Led Zeppelin.
A proposito. E gli altri dove sono?
«Non lo so, non ho idea di che cosa facciano. E poi il produttore ero io. Comunque se abbiamo deciso di fare questo lavoro è perché non volevamo che le nostre cose finissero nelle mani sbagliate. C’è dentro un bel po’ di materiale che non è stato niente affatto facile recuperare, e anche un bel po’ di frustrazioni».
Perché frustrazioni?
«Non sono mai soddisfatto, si può sempre migliorare
Quando la traiettoria di un gruppo si conclude è davvero così importante situarla nella storia della musica?
«Certo. Ci sono tanti esempi di musicisti importanti di cui abbiamo già dimenticato il nome, e non voglio citarne nessuno. Grandi band degli anni Sessanta, con tanti fan, che oggi nessuno ricorda. Ma non voglio essere frainteso, non ho alcuna intenzione di celebrare la nostra storia pomposamente. Voglio solo dire che noi sapevamo che la nostra musica sarebbe rimasta.
Per questo motivo non mettevamo sul mercato singoli ma solo il lavoro completo. Noi offrivamo un concetto, non cercavamo di soddisfare l’ansia di un pubblico che invece altri sfruttavano dandogli a mano a mano i pezzi di un tutto. Era questo che ci rendeva diversi. Ed è per questo, credo, che in quegli anni siamo riusciti ad ampliare gli orizzonti della musica. Tutti seguivano molto attentamente quello che facevamo allora».
C
ominciò a rendersi conto di tutto questo sin dai tempi in cui faceva il turnista suonando con varie band?
«Indubbiamente, imparai molto proprio in quel periodo».
Mi sta dicendo che a furia di vedere i punti deboli di altre band quando ne formò una seppe che cosa fare e cosa non fare?
«Diciamo che riuscii a chiarirmi molto le idee nella mia testa. Prima di tutto su come non fare le cose. Da quelle più complesse alle più ovvie, come scrivere la musica. Tenga conto che io non sapevo leggere uno spartito. Dovetti imparare ».
Quasi come Paco de Lucía, che era totalmente autodidatta.
«Be’, lui era un genio. Io ho faticato di più. Ma a poco a poco venni accettato in quel mondo. Il lavoro mi piaceva, le band volevano che restassi, che mi impegnassi di più, e dovetti imparare giorno dopo giorno. Ogni tipo di tecniche e di stili: acustico, elettrico, classico... Imparare e imparare. Ma mi interessava molto e seguivo particolarmente tutto il processo della registrazione.
Cercavo di immaginare come avrei potuto fare a registrare tutti i suoni che si accalcavano nella mia testa perché si avvicinassero a ciò che avrei voluto fare io. Imparavo strada facendo. Mi si apriva un mondo davanti, da cui assorbivo modi di lavorare, segreti che si aggiungevano al mio Dna. Poi cominciai a suonare con gli Yardbirds, e fu allora che potei dare un contributo con alcune idee mie. Quando quel progetto finì ormai sapevo esattamente cosa volevo».
Dunque prestissimo.
«Avevo suonato in tuguri underground di ogni genere, senza contare l’esperienza acquisita in studio o nelle radio, dove si suonavano non solo canzoni, ma ampie parti da diversi dischi.
Avevo accumulato esperienza tanto dal vivo che nelle sale di registrazione. Sapevo benissimo che strada avrei preso. E non solo perché avevo cominciato a farmi sentire, che è una delle prime cose che devi cercare di fare se vuoi fare questo mestiere, ma anche perché sapevo quali erano le cose che servivano per formare una buona band.
Per riuscire a fare qualcosa di importante è decisivo come cominci. Non vale la pena buttarsi in cerca del successo immediato con una canzone che arriva subito in vetta alla hit parade. Devi cercare di mettere su un gruppo che suoni bene e si faccia rispettare».
Ha menzionato gli Yardbirds, band in cui sono passati tre dei migliori chitarristi di tutti i tempi: Eric Clapton, Jeff Beck e lei. In che cosa voleva che i Led Zeppelin fossero diversi?
«Jeff fece un lavoro fondamentale, ma io volevo allargare gli orizzonti a un altro tipo di suoni, entrare in territori più all’avanguardia. Volevo cambiare il panorama, fare un passo in avanti rispetto a quello che si faceva e arrivare a sviluppare cose mai messe in pratica prima di allora da chitarristi solisti. Avrei voluto concretizzare con loro alcune delle mie idee, ma prima che fosse possibile si separarono. Fu allora che mi sentii pronto per offrire una visione che il pubblico già cominciava a pretendere. Qualcosa di fresco e di nuovo. Credo che ci riuscimmo».
Allora avevate ben chiari due concetti fondamentali: che cosa doveva essere un gruppo in studio e che cosa doveva essere dal vivo. Crede che i Led Zeppelin raggiunsero i loro obiettivi su entrambi i fronti? Come facevate a conciliarli?
«Esistevano, be’, sono sempre esistite, molte band che dal vivo riproducono esattamente quello che fanno in studio. Non era questo quello che noi volevamo. Nel nostro caso eravamo già dei musicisti formati e intendevamo crescere tutti insieme, in gruppo. Non avevamo una superstar da accompagnare.
Lavoravamo in uno spirito di comunione. Fin dal primo giorno. Prima provavamo tutti insieme e poi andavamo in studio. Sempre molto concentrati e, dal vivo, anche molto impegnati sui cambiamenti, sulle varianti, per creare diverse versioni. Non abbiamo mai abbandonato questo modo di lavorare. E per questo era sempre una cosa per noi molto eccitante. Ci sfidavamo e camminavamo sul filo del rasoio».
Prima di formare i Led Zeppelin aveva una libreria. Esoterica. Perché la chiuse?
«Perché cominciammo a viaggiare molto con la band, stavamo spesso all’estero. La chiusi quando Robert Plant si ruppe una gamba a Los Angeles. Era l’epoca in cui stavamo incidendo Presence , credo. Molti clienti della libreria, inoltre, erano convinti di avere un diritto divino a non pagare i libri».
Ah, sì? Rubavano?
«Più o meno. Be’, è così. La gente interessata a quel tipo di argomenti in genere non ha un centesimo ».
Un pessimo affare.
«Decisi di chiuderla, nemmeno di cederla».
Ha citato Presence: quel disco era molto influenzato dalle droghe.
«Per quanto riguarda l’influenza delle droghe dovremmo parlare degli album precedenti più che di questo. Direi invece che Presence si ispirava al concetto dell’intervento divino».
Influenza mistica?
«Musica divina».
Nel solco della leggenda della sua passione per le forze occulte?
«La definisca come vuole. Per me, che ormai ho più di settant’anni, è lo stesso. Sono un sopravvissuto. La musica parla da sola e basta, non c’entrano niente le circostanze mie personali, né le donne che ho avuto, né i miei figli. Parliamo di come si manifesta la musica sopra a tutte le cose; se vuole sapere di quelle altre faccende, ascolti la musica, sono tutte lì dentro».
Davvero potrei trovarcele?
«Cavolo, lo spero!».
Tutto viene dalle sue esperienze personali?
«Sì. Si tratta di un riflesso, di una dichiarazione di ciò che sei nella vita. Cambi, sperimenti tragedie, felicità, grandi momenti, c’è tutto. Forse la vita si lascia intravedere di più in chi scrive i testi, perché sfiora continuamente aspetti autobiografici; ma anche nel suonare la chitarra io mi sento molto espressivo, molto lirico. E sento che la mia arte è coerente con quello che sono».
Crede che i dieci anni di attività dei Led Zeppelin abbiano lasciato, nel bene e nel male, un segno nella sua parte di vita successiva?
«Sì. Anche se so bene di aver avuto una vita oltre i Led Zeppelin, devo ammettere che ho sempre avuto il senso di un debito nei confronti di quella tappa della mia esistenza e adesso, con questa raccolta, vorrei presentare qualcosa di ben fatto che dimostri chi eravamo davvero.
Io non sono uno che parla sempre bene delle case discografiche, ma devo dire che alla Warner hanno fatto le cose in grande stile. È stato un lavoro durissimo in cui spero che abbia predominato la decenza, il gusto di fare le cose per bene, l’etica di non dissipare un’eredità. Per questo mi ci sono impegnato tanto e ho voluto controllare tutto. Sono cose che ho vissuto profondamente. E poi ricordo tutto. So dove eravamo quando abbiamo inciso ogni singola canzone, come era disposto ciascuno di noi».
C’è qualcosa che l’ha sorpresa nel ripassare in rassegna tutti quegli anni?
«Il vincolo, la forza del vincolo che ci univa. La ricerca della qualità in qualsiasi circostanza. Se siamo riusciti a sfondare è grazie a questo sforzo d’insieme in cui ognuno di noi ha lavorato a fondo. E questo ha dato luogo a un’opera d’insieme, molto potente e ampia come concezione intellettuale. Posso dire che non mi pento di quello che abbiamo fatto».
Sotto il profilo artistico, non c’è di che lamentarsi, indubbiamente. E da altri punti di vista? Quelle storie di violenze, di abusi, di eccessi... C’è di che pentirsene?
«Questo non ha niente a che vedere con la musica ».
Io penso di sì, e credo anche che sia evidente nella sua musica. Lei non crede?
«Su di noi sono state dette tante cose. Ma credo che nessuno di noi avrebbe mai potuto trovarsi in una di quelle situazioni neppure per farne la colonna sonora. Mi capisce?».
Oggi avete un buon rapporto tra di voi?
«Assolutamente».
E perché crede che il gruppo si spaccò?
«Perché John Bonham morì, o no?».
Sì, ma esistono molte band che, pur avendo perso qualche membro, sono andate avanti.
«La nostra creatività ne avrebbe risentito. Era una band predestinata a esistere, non c’è dubbio. Era come una profezia divina. Ma se uno di noi fosse venuto a mancare, John Paul Jones, Robert o io stesso, non avremmo potuto continuare, lo sapevamo. Fare entrare qualcuno di nuovo ci avrebbe limitato.
Ciò nonostante, quando ci rimettemmo insieme per una sola volta, con il figlio di John alla batteria, lo facemmo in un modo molto dignitoso. Riuscimmo a sperimentare nuovamente quella tensione positiva, l’energia della nostra musica».
JIM MORRISON MAI VISTO – DOORS APERTE: LE FOTO DEL 1968 DELLO SPETTACOLARE CONCERTO AL FILLMORE FESTIVAL DI NEW YORK
Per quello che sarebbe stato il 71esimo compleanno del poeta dei the Doors (nato l’8 dicembre 1943), LIFE presenta la galleria realizzata da Yale Joeal nel 1968, quando Morrison aveva solo 24 anni…
Da http://time.com
Tra i grandiosi protagonisti della controcultura degli anni ’60, la rivista “Life” ha cercato di capire e spiegare ai suoi milioni di lettori chi era Jim Morrison, il paroliere e front man dei the Doors. Con il titolo "Wicked Go the Doors: An Adult’s Education by the Kins of Acid Rock”, lo scrittore Fred Powledge ha studiato Morrison attraverso i suoi testi e le sue famigerate buffonate sul palco.
Ma forse sono proprio le immagini a dirci qualcosa in più sul suo personaggio inenarrabile. Dopo tutto, sia chi li ama sia chi lo odia, nessuno può negare che i the Doors abbiano lasciato un segno indelebile nel mondo del rock and roll.
Per quello che sarebbe stato il 71esimo compleanno di Morrison (è nato l’8 dicembre 1943), LIFE.com presenta la galleria realizzata da Yale Joeal nel 1968, quando il poeta del rock aveva solo 24 anni.
QUESTI SIAMO NOI - L’ULTIMO CIAK DEL REGISTA GIULIO QUESTI: “ALBERTO SORDI AD AMBURGO ANDAVA A PUTTANE CON I SOLDI CONTATI PER NON ESSERE DERUBATO - LA COCA PER ME ERA COME IL WHISKY. NE FACEVO UN USO RICREATIVO, A DIFFERENZA DEI REGISTI DI OGGI CHE NE PIPPANO A CHILI“
L’ultima intervista al Buñuel della Val Brembana - Un film mandato al rogo, altri sequestrati, Giulio Questi stroncò le poesie di un giovanotto che si chiamava Pasolini, bocciò ai provini Sophia Loren, che cantava 'O surdato 'nnammurato, e Sylva Koscina, gratificata di un lapidario «ma lei è proprio negata!».
Stefano Lorenzetto per “il Giornale”
Questa intervista, raccolta una settimana fa a Torino, è l'ultima concessa dal regista Giulio Questi, morto mercoledì a Roma. Rimane scritta come se egli fosse in vita.
giulio questi film
GIULIO QUESTI FILM
È accidentata la via che conduce alla fama. Ne sa qualcosa Giulio Questi, regista, sceneggiatore, documentarista, attore e scrittore che va per i 91 anni. Un suo trisavolo, Bepi, raggiunse la notorietà senza volerlo con un processo per vilipendio di cadavere. Viveva con la moglie e un paio di mucche in una baita in Alta Valle Imagna, nel Bergamasco. Un inverno lei morì di polmonite. Impossibile portarla giù in paese: il sentiero era scomparso sotto la neve.
Così l'uomo sistemò la salma irrigidita nella legnaia, in piedi, affinché occupasse meno spazio. Quando la sera dopo andò a prendere i ceppi da ardere nel camino, non sapeva dove appendere la lampada a petrolio. La defunta, che era rimasta con la bocca spalancata nell'ultimo disperato tentativo di respirare, gli venne amorevolmente in soccorso: il Bepi agganciò la lucerna alla sua mandibola.
Appendi oggi, appendi domani, al disgelo di primavera la faccia della poveretta era deformata. Messo alla sbarra, il marito fu assolto dopo due sole udienze, «segno che a quei tempi la giustizia era sensibile alla condizione umana», commenta il pronipote cineasta, che del passato meno remoto ha impresso nella mente il colore blu della pelle di sua nonna, costretta a vivere a letto con il cuore sfiancato da 19 gravidanze.
Invece Questi deve la sua celebrità alla cacca. «Valerio Zurlini mi aveva preso come suo aiuto per girare Le ragazze di San Frediano, dal romanzo di Vasco Pratolini. Mi ero comprato una Lambretta e con quella portavo lo scrittore fiorentino avanti e indrè dalla casa della sceneggiatrice Suso Cecchi D'Amico, a via Paisiello.
giulio questi
GIULIO QUESTI
Un pomeriggio attraversammo il parco di Villa Borghese. I cavalli delle carrozzelle avevano riempito la strada di sterco e le ruote delle auto lo avevano trasformato in una patina viscida. Lo scooter slittò e ci ritrovammo per terra. Pratolini era pallido come un cencio, tutto sporco di merda. Finì all'ospedale. Quando la sera arrivavo al caffè Rosati in piazza del Popolo, dove bighellonava la crème di Roma, tutti si davano di gomito: “Guarda quello stronzo che ha rotto le costole a Pratolini!”. Ero diventato famoso».
A dire il vero, Questi è diventato famoso per alcuni film cult, alcuni dei quali dardeggiati dalla censura e dalle questure, come Nudi per vivere (il giudice ordinò la distruzione del negativo), Se sei vivo spara con Tomas Milian e Marilù Tolo, La morte ha fatto l'uovo con Gina Lollobrigida e Jean-Louis Trintignant, Arcana con Lucia Bosè e Tina Aumont; per documentari di impegno civile, come Donne di servizio e Om ad Po;
per sceneggiati e telefilm trasmessi da Rai e Mediaset, come Il segno del comando, Non aprite all'uomo nero e Il commissario Sarti. Solo che, essendo l'esatto contrario dell'intellettuale presuntuoso abituato all'autocelebrazione, non aveva mai raccontato a nessuno chi fosse veramente.
Sennonché un bel giorno ha cominciato a confessarsi davanti al registratore di due cari amici, Domenico Monetti e Luca Pallanch, che lavorano al Centro sperimentale di cinematografia. I quali hanno deciso di sbobinare quelle conversazioni, ricavandone un libro, Se non ricordo male (Rubbettino-Csc), in cui, per la prima volta e in prima persona, Questi mette nero su bianco gli avvincenti retroscena della sua vita da irregolare militante.
Si scoprono così lati assolutamente inediti del regista maledetto. Stroncò le poesie di un giovanotto che si chiamava Pier Paolo Pasolini. Bocciò ai provini le esordienti Sophia Loren, che cantava 'O surdato 'nnammurato, e Sylva Koscina, gratificata di un lapidario «ma lei è proprio negata!».
Fu poi cacciato dall'ufficio del marito della prima, Carlo Ponti, ma si prese una rivincita a New York dormendo di nascosto per qualche tempo nell'appartamento del produttore e dell'attrice: «Uno dei figli della celebre coppia l'aveva messo a disposizione del mio amico Daniele Senatore, produttore cocainomane, con il quale ho sniffato persino nel bagno della residenza londinese di Richard Burton».
Divenne il pupillo di Elio Vittorini. Aiutò Michelangelo Antonioni a realizzare short pubblicitari per Il Giorno e documentari sugli animali che l'osannato regista aveva accettato di girare per sete di denaro ma si vergognava a firmare. Fu attore per caso con Federico Fellini (La dolce vita) e Pietro Germi (Signore & signori). Costrinse Lucia Bosè a ingoiare rane vive sul set di Arcana, «e come si divertiva». Fraternizzò con Gabriel García Márquez, che, suo ospite sull'isola di Baru, in Colombia, gli svelò i segreti della vita privata di Fidel Castro.
Mentre racconta tutte queste cose, Questi si mantiene lucido con il drink preferito: tre dita di whisky, una montagna di ghiaccio, tanta acqua. «Ho imparato da Orson Welles. Nel 1949 lo stava bevendo mentre scriveva un copione sul terrazzo di una locanda di Taormina. Lo consiglio come tonificante verso sera, quando si vuole lavorare ancora per un'oretta. Il whisky è un alcol pulito, non devi digerirlo come il vino. Ti apre subito i vasi capillari e diventi un genio».
Oreste Del Buono la definì «il Polanski orobico, il Buñuel della Val Brembana».
«Sono nato a Bergamo, in effetti. Da bambino lessi con sorpresa il mio nome nelle targhette d'ottone inchiodate sui portali della chiesa di San Bartolomeo e del teatro Donizetti: Giulio Questi. “Tuo nonno”, disse mio padre. Una vena artistica che riscoprii dopo la laurea in lettere e filosofia. Collaboravo con una rivista locale, La Cittadella, sulla quale scrivevano anche Bruno Zevi, Gianandrea Gavazzeni e Aldo Capitini. Nel 1949 organizzammo un convegno di architettura, al quale fu invitato Le Corbusier. Toccò a me fargli conoscere Bergamo. Correva eccitato da una parte all'altra delle strade per cambiare prospettiva, tracciava schizzi, prendeva appunti».
Gli inizi nel cinema furono duri.
«Erano i primi anni Cinquanta, non avevo una lira. Ferruccio Parri mi portava a tavola con la sua famiglia. Siccome ero stato partigiano, mi considerava un figlio disagiato della Resistenza. M'invitava a pranzo anche Vittorio Gassman».
E dove dormiva?
«Una affittacamere mi aveva dato una stanzetta in via delle Carrozze. Una notte sentii bussare alla porta: era Marco Ferreri. “Non posso dormire sulle panchine, fa troppo freddo”, mi disse. Non avevo una coperta da dargli. “Non ti preoccupare, sono attrezzato”, rispose. S'era portato dei giornali, con i quali si foderò il corpo. Non riuscii a chiudere occhio. Quel pupazzone di carta, che frusciava a ogni movimento, mi faceva sentire, nella mia miseria, un privilegiato».
Poi l'incontro con Luchino Visconti.
«Aveva molto apprezzato un mio articolo su La terra trema pubblicato dall'Avanti!. Quando arrivai nella sua magnifica magione sulla via Salaria, stava sbrigando un'incombenza. Ordinò a un giovanotto che gli girava per casa: “Franchino, tieni compagnia al nostro amico finché non mi libero”.
Era Zeffirelli. Seguirono minuti di gelo con l'allievo, contrariato. Alla fine Visconti mi disse: “Sto preparando La carrozza d'oro con Anna Magnani, ma ci sono problemi con la produzione. Appena siamo pronti, ti prendo come aiuto regista”. Invece alla fine quel film fu affidato a Jean Renoir».
Mario Gianani, produttore di Vincere di Marco Bellocchio nonché marito del ministro Marianna Madia, mi ha spiegato che oggi la bravura dei cinematografari consiste soprattutto nel tirar su quattrini tra Mibac, Film commission regionali e tax credit delle banche.
«Il cinema è condizionato dalla conformità. Film di rottura che ti facciano sobbalzare sulla poltrona non se ne vedono. Si girano solo per avere i contributi».
Ma a lei i soldi per girare La morte ha fatto l'uovo, storia di polli e di erotismo che già nel 1967 accusava gli allevamenti in batteria, chi li diede?
«Marina Cicogna. Come contropartita, pretese che affidassi la parte a Gina Lollobrigida. Un'attrice in auge dava alla pellicola più mercato».
«Il film, confuso e aggrovigliato, risolve le sue ambizioni in uno sterile e presuntuoso calligrafismo», lo stroncò il Centro cattolico cinematografico.
(Ride). «Be', ha avuto i suoi nemici. Però dopo mezzo secolo ancora se ne parla. Sul set fui sfregiato da un pollo che mi arpionò la faccia con una zampa».
Nulla rispetto a ciò che accadde alla costumista Marilù Carteny, sua moglie.
«È stata anche la costumista di Queimada e Le mani sulla città. La conobbi mentre giravamo Le ragazze di San Frediano. Se le riprese non fossero durate un anno intero, forse non mi sarei mai sposato. Ci siamo voluti bene. È morta una decina d'anni fa. Due mesi dopo mi sono messo con Diana Donatelli, un'ex assistente sociale. Secondo matrimonio. Gli amici ci tenevano tanto».
Molto edificante. Ma non divaghi.
«Andò così. In Olanda stavo sistemando il cavalletto della macchina da presa. Inavvertitamente piantai una delle tre punte in un piede di Marilù, che lanciò un urlo straziante. In quel momento passava alle sue spalle una nave. Mi venne spontaneo ordinarle: “Cristo, non muoverti! Motore, motore!”. E filmai i lacrimoni che le sgorgavano dagli occhi. Le medicai la brutta ferita solo alla sera».
Nel suo libro il ritratto del pio Alberto Sordi ad Amburgo è spietato.
«Con Francesco Rosi eravamo sulla Reeperbahn, che pullula di localacci, per I magliari. Sordi voleva trovare una donna, ma non aveva il coraggio di dirlo. A un certo punto chiamò uno della troupe, gli consegnò il portafoglio e si allontanò non prima d'averne tratto le banconote necessarie per il divertimento. Ho in mente questa scena dell'attore tirchio che va a puttane con i soldi contati per non essere derubato».
Ma lei chi è? Un anarcoide?
«In parte. Però nei rapporti umani sono rispettoso. Non mi piace insultare gli altri, devo avere forti ragioni artistiche o letterarie per farlo. Ho persino evitato di qualificarmi come regista: mi avrebbe conferito uno status sociale dal quale mi sono sempre tenuto alla larga per salvaguardare la mia libertà».
Va ancora al cinema?
«Molto meno di un tempo. Sono un po' sordo. L'apparecchio acustico deforma l'audio e m'incazzo come una bestia. Preferisco guardare i film in Dvd sullo schermo del mio Mac, con le cuffie».
L'ultimo che ha visto?
«Midnight in Paris. Mi ha deliziato. Forse per una consonanza culturale o mentale, cerco di non perdermi mai le opere di Woody Allen, comprese le stronzate. Per me diventano oro colato».
Con il decisivo apporto di Roberto Benigni, To Rome with love m'è sembrato in effetti un'aurea stronzata.
«Ecco, quello non l'ho visto».
Ha chiuso con la cocaina?
«Non l'ho mai comprata o avuta in tasca. Per me era come il whisky. Ne facevo un uso ricreativo, ma solo se me la offrivano. Non sono né un ubriacone né un tossicomane da 5 grammi al giorno, a differenza degli scrittori e dei registi di oggi che ne pippano a chili e si vergognano a dire che aiuta la loro creatività».
Come trascorre le giornate?
«Scrivo, soprattutto racconti. E giro video. Il giorno che il dentista mi ha cavato in un colpo solo gli ultimi 12 denti, ho ceduto a una tentazione consumistica per consolarmi del dolore atroce patito: mi sono comprato una videocamera Canon che da mesi mi strizzava l'occhiolino da una vetrina. Una mattina l'ho accesa, ho guardato nel buco e ho gridato al miracolo: leggeva qualsiasi tipo di luce, con effetti macro da lasciare sbalorditi.
Ho cominciato a recitare me stesso per lei. Sono nati Doctor Schizo e Mister Phrenic, e anche la Solipso film, visto che facevo tutto da solo. Ho montato le sequenze al computer: meglio della moviola. Ci ho messo sotto le musiche di Béla Bartók e Arnold Schönberg. Angelo Draicchio, produttore della Ripley's home video, se n'è innamorato e ci ha fatto due Dvd in cofanetto. L'ha voluto intitolare By Giulio Questi».
Ha ripudiato la celluloide per convertirsi al digitale, da non credere.
«La tecnologia ti spalanca il mondo della fantasia, che prima era appannaggio solo della letteratura. Dà la possibilità di raccontare i sogni, per esempio».
Se potesse tornare indietro, c'è qualcosa che non rifarebbe?
«No, rifarei tutto. Non perché fosse giusto, ma perché era fatale farlo. Io stesso, come persona, appartengo a una fatalità».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Non ci ho mai pensato. È difficile, così, su due piedi... Ci rifletto e le scrivo una mail».
ALL’ART BASEL DI MIAMI, TUTTO E’ ARTE. COMPRESO LE TETTE E IL CULO DI KIM KARDASHIAN - 2. A MIAMI L’ARTE È TUTTO, ANCHE GUARDARE IL RAPPER USHER CHE PAGA 20 DOLLARI PER CARICARE IL SUO IPHONE INFILANDOLO NELLA VAGINA DI UNA DONNA, INSTALLAZIONE DELLA MODELLA/ARTISTA LENA MARQUIS, CHE SI È INFILATA LA BATTERIA NELLE PARTI INTIME - 3. LA FIERA DI MIAMI HA ORMAI PIÙ A CHE FARE CON FESTE E CELEBRITÀ CHE CON POLLOCK E KIEFER. BASTA GUARDARE LE FOTO: PARIS HILTON CHE FA LA DJ, MILEY CYRUS SBALLATA CHE PRESENTA LE SUE “SCULTURE”, EVA LONGORIA CON UN SUO AUTORITRATTO, LADY GARA POSA IN “MARAT ASSASSINATO”, IN GIRO OWEN WILSON, ROBERT PATTINSON, SERENA WILLIAMS - 4. LEONARDO DICAPRIO HA PAGATO UN MILIONE DI DOLLARI PER UN PEZZO DI FRANK STELLA. POI HA ALLENTATO LA TENSIONE ALLA FESTA DI ‘SOUTH BEACH’, IN COMPAGNIA DI 20 RAGAZZE - 5. LA PERFORMANCE PIÙ PROVOCATORIA IN CIRCOLAZIONE? ALCUNI ABITANTI DI MIAMI HANNO MANIFESTATO CONTRO IL RAZZISMO E CONTRO LA BRUTALITÀ DELLA POLIZIA, OCCUPANDO L’AUTOSTRADA CHE CONNETTE MIAMI BEACH ISLAND AL CENTRO CITTÀ, INSCENANDO UN “DIE-IN”
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L’Art Basel di Miami non sarebbe stato completo senza tette e culi. Al party di “Paper magazine” tutti avevano in testa la copertina di Kim Kardashian, e lei, lì presente a cena, ha voluto specificare che quelle immagini sono realmente “arte”. L’arte è bellezza, l’arte è una finestra sul sublime, l’arte è guardare il rapper Usher che paga 20 dollari per caricare il suo iPhone nella vagina di una donna, installazione della modella Lena Marquis, che si è infilata la batteria nelle parti intime.
Miley Cyrus si è presentata con un body alla Borat e parrucca d’argento, fumando marijuana sul palco, parlando molto del suo cane scomparso e di quando ha iniziato a fare “arte”: forse ogni tanto si incontra con la Kardashian per creare insieme.
Intanto il paese scendeva in piazza in memoria di Eric Garner e Mike Brown. Alcuni abitanti di Miami hanno manifestato contro il razzismo e contro la brutalità della polizia, occupando l’autostrada che connette Miami Beach Island al centro città, inscenando un “die-in”. Il contrasto fra il messaggio politico in strada e i giorni e le notti di decadenza, privilegio e prestigio dell’”Art Basel”, è stata di sicuro la performance più provocatoria in circolazione.
fiera annuale a Miami ha ormai più a che fare con feste e celebrità che con l’arte. Basta guardare le foto: Paris Hilton che fa la dj, Miley Cyrus che balla fra le bolle di sapone e presenta la sua indefinibile opera, la modella Adriana Lima che sponsorizza la nuova collezione “Portofino watch”, Solange Knowles (sorella di Beyoncé) che canta, Eva Longoria che porta un suo autoritratto intitolato “Time is beautiful”, ospiti fluorescenti al party Dom Pérignom, Lady Gara posa in “Marat assassinato”, sfila Emily Ratajkowski (la modella desnuda di "Blurred Lines"), in giro si vedono Owen Wilson, Robert Pattinson con la nuova fiamma, Serena Williams, Drake.
Il rapper Sean ‘Diddy’ Combs ha speso 95,000 dollari per la scritta al neon di Tracey Emin “Ascolto l’oceano ma sento solo te”, Leonardo DiCaprio ha pagato un milione di dollari per un pezzo di Frank Stella. L’attore si è goduto la vacanza a Miami. Prima è stato visto con la fidanzata del giorno (la modella di “Victoria’s Secret” Toni Garrn), poi ha lasciato la festa
di South Beach, in compagnia di 20 ragazze, tutte modelle. Perché sceglierne una quando puoi averle tutte?
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