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RITORNA IL GRANDE ARTISTA FABRIZIO
IL GRANDE ARTISTA GENOVESE IN UN LIBRO TRATTO DAI SUOI DIARI INEDITI, APPUNTI FULMINANTI E RIFLESSIONI –
CHI DI DE ANDRE’ HA AMATO LA POESIA E LA MUSICA, LEGGENDO QUESTE PAGINE SI RITROVA A CHIACCHIERARE CON LUI
«Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera»…
Marco Neirotti per “La Stampa”
Quando dalla pagina stampata, con le parole e i pensieri, si avvertono anche la voce profonda, l’intonazione venata dalla cadenza genovese, perfino il sorriso e lo sguardo curioso, allora l’incontro è completo. Eccolo Fabrizio De André, addormentato ma non spento dal tumore nel 1999 a 58 anni e ora qui a svelarsi in Sotto le ciglia chissà, un «diario» senza cronologia, raccolta di appunti fulminanti e riflessioni, aforismi e versi inediti, ricordi e dialoghi con se stesso, battute e nostalgie, fissati al volo su una busta o meditati su una pagina di quaderno, in comune a tutti il suo respiro poetico espresso scolpendo le parole.
Racconta Dori Ghezzi, che ha selezionato l’immenso materiale di anni (ora conservato al Centro Studi Fabrizio De André presso l’Università di Siena): «Fabrizio annotava molto. Quando lo faceva in modo estemporaneo e improvviso forse era più per incidere nella memoria scrivendo più che per rileggere.
Quando stava creando lo faceva in modo professionale, dentro un progetto, riordinando il materiale». Pubblicare quel pensare intimo eppure aperto come un dialogo è stato un lavoro di selezione, è stato raccogliere senza tradire la riservatezza di Fabrizio.: «Senza dare una sequenza temporale, si sono piuttosto unificati argomenti».
E gli argomenti sono giorni vissuti e osservati. Quando annota «mi comperai la vita con i canti e i sorrisi» avvia un sorprendente viaggio nel comporre, entra nella creazione del cantautore («Perché scrivo? Per paura che si perda il ricordo delle persone di cui scrivo») ma ammonisce la nostra curiosità: «Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera».
Brevi o più distesi nella riflessione e nell’introspezione, coriandoli di diario ripercorrono lo spettacolo sanguinante dell’emarginazione (che «ti sottrae al potere» e «ti avvicina al punto di vista di Dio»), scavano nelle guerre, si muovono tra la politica e il calcio, la sociologia della violenza e il rapporto tra i sessi.
Non c’è tema - trattato nelle canzoni, ma anche incontrato in strada o nei libri - che sfugga al suo interesse, accompagnato dagli autori delle notti di lettura, da Plotino e Platone, da Petronio e Apuleio a Spinoza, Hegel, Adorno fino a Sartre, da Verlaine a Camus e Proust, da Šolochov e Steinbeck a Sepúlveda e Álvaro Mutis.
Ma la miniera di cultura di De André non è una fornitrice di diamanti filosofici o letterari a se stanti, è una sorgente che irriga e fa fiorire altro sentimento e altra poesia. Sulla quale, trattando con umiltà il proprio lavoro, sparge un rammarico: «Per quanto c’è di poesia nelle nostre canzoni assolviamo al compito che è però dei poeti, che purtroppo nessuno legge più».
E l’autoironia stabilisce i confini: «Noi siamo dei venditori. Bisogna vedere se siamo abbastanza onesti da vendere carne fresca oppure carne marcia».
In 250 pagine incalzanti come un racconto folto di rami come la narrativa di Márquez, la «storia» procede con la consapevolezza del tempo («Perché lo chiamano passato, se non passa mai?») e percorre i temi delle canzoni: l’anarchia come «categoria dello spirito», l’emarginazione, la solitudine, il potere, l’iniquità, la morte.
Percorre i mali di ieri immutati oggi: «Con i razzisti e con i nazisti non si convive, non si tratta, li si chiude, loro sì, dentro quattro mura, e che dimostrino lì la loro autosufficienza, le loro capacità di uomini superiori, la loro grande forza esercitata, chissà perché, sempre e soltanto con i deboli». Paiono scritte oggi, con la dolcezza di sempre, le pagine su emigrazione, sofferenza, nuova povertà.
Il De André che guarda il mondo guarda con onestà se stesso e con tenerezza gli affetti e la memoria: l’infanzia di ricco attirato dai giochi con i compagni poveri e carichi di slanci, la famiglia d’origine, madre, fratello e quel padre illustre che ritorna come insopprimibile desiderio di reincontro, con un ringraziamento da porgergli. Le prime nozze, poi il matrimonio e la vita con Dori, i figli, Genova, il mare, la Sardegna, anche l’alcol, il sequestro di persona e il rapporto con la religione, con Cristo uomo e con un Dio da scoprire.
«L’avrebbe pubblicata?». Questo Dori adesso racconta di essersi domandata a ogni frase, a ogni osservazione o confessione allo specchio. E non ha potuto che rispondere sì, perché in queste pagine è il Fabrizio che sapeva ascoltare e parlava con la convinzione serena di chi conosce il valore delle parole, la coscienza di sé e degli altri che animava l’umiltà con cui, alle prove dei concerti, si poneva con una pazienza infinita agli ordini dei tecnici che lavoravano con sapienza perché tutto fosse perfetto e poi andava lui stesso nell’ultima fila ad ascoltare perché nessuno fosse anche un poco escluso.
Leggendo guizzi fulminei o più elaborate analisi, si pensa al rischio che, in una società di comunicazione e immagine più che di contenuti, qualcuno provi a impossessarsi d’una frase tagliente o guizzante per impossessarsi di Fabrizio, ma anche da questo Dori lo sente riparato: «Certo, non essendo un extraterrestre, esprimeva pensieri nitidi e precisi, ma il suo pensiero non è rapinabile». E’ invece offerto per essere condiviso: chi di De André ha amato la poesia e la musica senza la fortuna di un dialogo leggendo queste pagine si ritrova in poltrona o sotto un albero a chiacchierare con lui, a fargli le domande che aveva in serbo e a sentirlo rispondere con la voce profonda e gentile.
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