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“LA FORESTA DEI SOGNI” DIRETTO DA GUS VAN SANT
NON È GIOIA PURA QUESTO FILM “LA FORESTA DEI SOGNI” DIRETTO DA GUS VAN SANT CON INTERPRETI PREGEVOLI COME MATTHEW MCCONAUGHEY, KEN WATANABE E NAOMI WATTS, CHE HA MANCATO LE ASPETTATIVE, CON FISCHI IN SALA, IL PUBBLICO DI CANNES DECRETO' UN NO
Qui si parte da una sceneggiatura di Chris Sparling che vede un malinconico professore, Matthew MacConaughey, precipitarsi in una montagna giapponese, chiamata il Mare d'Alberi, che è da anni meta di suicidi di tutte le nazionalità - Lì, come è pronto a farla finita, gli si presenta un altro aspirante suicida giapponese, Ken Watanabe… -
La sua "Foresta dei sogni" è stato accusato di «misticismo strappalacrime». E qui il regista risponde. Spiegando che parlare di morte, amore e strane coincidenze spaventa molti. Ma non lui
«La vita che hai avuto dai tuoi genitori è un bene prezioso»: è la scritta che Arthur Brennan si trova davanti prima di addentrarsi nella foresta di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, «la foresta dei suicidi» per i giapponesi, che almeno in cento la scelgono ogni anno come luogo per l'estremo gesto. Arthur, matematico americano – Matthew McConaughey – è il protagonista di La foresta dei sogni, di Gus Van Sant, in originale The Sea of Trees.
Arthur ha comprato un biglietto di sola andata per il Giappone e, dall'aspetto stravolto e lo sguardo smarrito, è subito chiaro che non cerca un luogo esotico per iniziare una nuova vita ma per morire nella magnificenza della natura di Aokigahara. Ha già preso alcune delle pillole letali quando incontra un uomo insanguinato, i polsi tagliati, che vaga smarrito da due giorni: Takumi Nakamura (interpretato da Ken Watanabe) voleva morire ma ha cambiato idea, ora cerca di uscire dalla foresta per tornare alla famiglia e alla vita. Arthur d'istinto lo soccorre, ed è l'inizio di un dialogo tra persone di opposta cultura, durante il quale dei flashback svelano le ragioni della disperazione: per Arthur una crisi devastante con la moglie (Naomi Watts), per Takumi un fallimento professionale.
La foresta dei sogni è stato il film più controverso dell'ultimo festival di Cannes. Accolto con generale favore dal pubblico, ha curiosamente diviso la critica tra Ovest ed Est: attenzione e rispetto sulla stampa dei Paesi orientali, perfide recensioni sui media di questa parte del mondo, soprattutto su quelli anglosassoni, che hanno ironizzato sulla lentezza e gli eccessi di «misticismo strappalacrime» del film, attaccando impietosamente Gus Van Sant (autore fra l'altro di Elephant, ispirato alla strage di Columbine, Palma d'oro a Cannes nel 2003, e del premiatissimo Milk del 2008) e parlandone come di un talento perduto.
Americano del Kentucky, classe 1952, Gus Van Sant – attualmente impegnato nella serie tv When We Rise, ricostruzione degli inizi del movimento dei diritti civili dei gay nel 1969 a Stonewall – non si è scomposto più di tanto davanti alle bordate dei critici. «Ho letto la sceneggiatura scritta da Chris Sparling, mi è piaciuta, ho fatto il film. Forse avrei dovuto prevedere che il tema del suicidio sarebbe stato troppo deprimente. Ma non è la prima volta che i critici mi massacrano, mi sono abituato» dice con la gentilezza esitante di chi tenta di superare la timidezza e la scarsa propensione per le interviste.
Non c'è solo il tema del suicidio nel suo film, ma è difficile collocarlo in un genere. Lei come lo definirebbe?
«Una specie di puzzle giocato tra punti di vista opposti sulla vita e sulla morte, sullo scontro tra scienza e spiritualità, ma anche un melodramma, un esempio di serendipità, una grande storia d'amore. Una delle sequenze centrali per me è il monologo di Arthur su quei lievi segnali che determinano
la fine di un sentimento, brevi distrazioni, innocenti ipocrisie, piccoli rancori repressi, tante cose non dette. Segnali dei quali in genere ci rendiamo conto quando è troppo tardi»...
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