Da alcuni anni sto lavorando a due romanzi, uno dei quali è l’evoluzione di una novella contenuta in A Volo D’Angelo e un altro, molto impegnativo sul piano della ricerca storica, che penso mi darà da fare per i prossimi anni. Ho deciso di fare della narrativa la mia professione nella parte più matura della mia vita.
Ho la fortuna di vivere nel centro di una città, in una casa dotata di ampia terrazza. L’inatteso silenzio per la mancanza di traffico, la cura delle piante, il lavoro manuale per piccole ristrutturazioni, l’insegnamento a distanza, i pazienti on-line, la lettura sono stati i miei compagni. La scrittura purtroppo no. Rischio di essere banale ma è la verità. La mancanza di libertà, la riduzione delle relazioni sociali, l’impossibilità ad uscire di casa non hanno favorito per nulla la mia produzione letteraria, anzi, stare davanti alla tastiera è stato in alcune fasi del confinamento quasi doloroso.
A VOLO D’ANGELO
La domenica, alle prime luci dell’alba, Cagliari sonnecchia e a parte qualche lento spazzino e nottambulo di rientro, le strade sono deserte. E’ una fulgente mattina di maggio, luminosa e fresca allo stesso tempo. Cappuccio e cornetto al Bar Roma - nell’omonima via - e poi via verso il Sulcis. Nebida mi aspetta. La Statale 130 è fra le strade più noiose - per questo è anche fra le più pericolose - che io conosca. E’ difficile tenersi svegli, guidare su una striscia nera rettilinea lunga quasi cinquanta chilometri, che attraversa una pianura gialla, riarsa dal sole, molto simile alla porta di un deserto messicano. Ma non oggi, è una giornata che aspettavo da tanto e a Nebida mi attende zio Francesco. No, non è davvero mio zio, è un vecchio cavatore che conosce a memoria tutte le miniere fra Buggerru e Carbonia. L’altro giorno l’ho sentito per l’ennesima volta al telefono. Nonostante avesse la voce incerta mi ha detto nel suo italiano approssimativo. “Va bene! Sono stufo di sentirti chiedere, vieni di buon mattino che ti faccio sporgere dalla porta della galleria del Vecelli”. Era da tempo che facevo la corte al vecchio minatore e finalmente ero riuscito a fare breccia nella sua scorza. Zio Francesco ha una faccia che si potrebbe descrivere come antica e rugosa, in verità è proprio corrugata, come le colline di Nebida: un viso che potrebbe definirsi emerso dallo scisto più che scolpito, con profonde fenditure sulle guance smunte, brunite dal sole, solcate dal vento, armonizzate dall’acqua. Radi capelli bianchi, protetti da una coppola grigia che – probabilmente - li difende da decenni. La schiena denuncia un’età imprecisa e le mani leggermente ricurve e callose, ricordano senza indugio, il suo passato di minatore. Nonostante i giacimenti siano chiusi dagli anni sessanta, lui continua a viverli, per gli amici, per i piccoli gruppi di eletti, per gli indomiti innamorati di questo territorio o forse più semplicemente per nostalgia, abitudine, irresistibile attrazione per la terra. Avevo tentato decine di volte di farmi accompagnare dentro quelle miniere e non ero mai riuscito a convincerlo. Una pioggia troppo intensa, l’artrite che si risveglia, la nebbia che improvvisa sale dal mare con una libecciata, avevano sempre impedito di esaudire il mio progetto di vederle, queste antiche cave, filtrate dagli occhi, le mani, i racconti e l’anima di zio Francesco. Lui, che ci ha lavorato fin da quando aveva dodici anni e che rimane uno degli ultimi testimoni di un mondo passato e forse perduto. Sacerdote laico di un rito pagano che sa di zolfo, piombo e argento. Nel Sulcis le miniere sono consustanziali, sono la sua storia moderna, quintessenza della sua realtà, immutabile e contemporaneamente universale natura delle cose. Zio Francesco ne porta i segni nel corpo ricurvo, nelle mani artritiche, nel sentire silenzioso, nello sguardo che penetra gli anni e sa trasferire un sapere profondo che altrimenti morirà con lui.
Lasciata Iglesias e la piccola galleria che immette nella SS 126, già mentre si scende verso Carbonia, le miniere ti compaiono davanti con le terre di riporto, grigie, rossastre, ferrose di Monteponi e ti seguono con mille case diroccate, antichi macchinari dismessi che solo cinquanta anni fa, (distanti come appartenessero a un’altra era geologica), erano dei mostri di ferro e fumo, che cavavano materiali dal ventre della terra e deponevano migliaia di tonnellate di fanghi dilavati proprio sui margini dove ora la strada corre. Il sole del mattino, illumina quelle colline innaturali che mirti, ginestre e arbusti stanno faticosamente ricoprendo, come fossero davvero colline che da sempre regnano sovrane e non siano, come sono, un infinito termitaio, artificio suburbano dell’attività estrattiva che ha sconvolto il paesaggio originale. Le vecchie case dei minatori, quasi tutte costruite in pietra, ti osservano con le loro orbite vuote, gli infissi penzolanti, i tetti di travi in legno perforate dai tarli e con il cielo al posto delle tegole. Superato lo svincolo che immette nella SS 83, anticipato da folate di vento che ne trasportano il profumo, il mare. L’azzurro intenso è improvviso e si perde verso le isole Baleari, dalla battigia di Fontanamare. Ma è un attimo e subito ti ritrovi fra i tornanti della litoranea che serpeggia fra gli strapiombi e l’azzurro del cielo che lotta con quello del mare. L’autoradio, come avesse capito di essere in un limite, un confine, un margine, comincia a sintonizzarsi con le antenne della Spagna. La strada è stretta e in ogni stagione, con qualunque temperatura o fortunale, trovi sempre gruppetti di turisti che a bocca aperta ammirano la costa, scattano fotografie nell’incerto tentativo di portare a casa uno sbiadito ricordo di quell’emozione, di quei paesaggi; riempiono i polmoni d’aria di infinito che mostra, a momenti, la sua natura selvaggia, la risacca feroce di un mare bello e terribile, che in ogni momento pare ricordare agli uomini, la loro piccolezza, l’ impareggiabile grandezza della natura, la sua magnifica potenza tradotta in onde, scogli, faraglioni e diruppi. Con questa veduta ancora negli occhi accosto la mia automobile davanti al bar La Piazzetta, dove zio Francesco mi aspetta sorbendo il suo ennesimo caffettino.
“Oh Anto, credevo che non venivi più”, mi dice stringendomi la mano, “voi
casteddaiusu siete strani, mai che ci si possa fidare. Avevamo detto
a mengianeddu chizzi[i]: sono qui dalle sette che ti aspetto”. Zio Francesco scusami, ma per me, ora è mengianeddu chizzi, sono le otto e venti … si sono appena svegliate le galline a Nebida … “
Ellusu!
[ii]”, si limita a rispondere il vecchio, che subito è in piedi e si dirige verso la macchina. “Aiò!, che non facciamo in tempo a vedere nulla”. In breve mi guida all’ingresso della miniera di Porto Flavia, ancora una volta chiusa al pubblico per infiltrazioni d’acqua. L’amministrazione di Iglesias da sempre permette al vecchio Francesco di entrare a “
casa sua”, come la chiama lui, e portare qualche amico. Oggi questo privilegio è finalmente toccato a me. Armati di scarponi e lampada, entriamo in galleria e zio Francesco - qui dentro - sembra ringiovanire: mostra, racconta, si ferma a riflettere e poi riprende a camminare come se fra i mille ricordi e pensieri, scegliesse quelli adatti a me. Saliamo e scendiamo fra vecchi nastri trasportatori, depositi scavati nella roccia, impalcature in legno che costringono ad abbassare il capo, scheletri di compressori e perforatrici Tex 30, con cui i minatori violavano la terra, a torso nudo, caricando i materiali su piccoli vagoncini che si allineavano, come un enorme bruco, a una motrice minuscola ma potentissima, che trascinava il carico fino alla tramoggia d’uscita di Porto Flavia. “Vedi Antonio, io stavo qui dentro, a volte anche dodici, tredici ore. D’inverno entravo che ancora la notte non era andata via e uscivo che era tornata. C’erano periodi che non vedevo la luce del sole per mesi, fino alla primavera. Io e
sa bonanima di Peppineddu Trincas, ci abbiamo trascorso la gioventù intera qui dentro e quando arrivava il sovrastante, Jaime Porcu- ‘
stizzia du tiridi [iii]- dovevamo far finta di essere freschi e riposati, perché altrimenti il giorno dopo era capace di lasciarci all’ingresso, senza paga. Chi glielo diceva poi a babbo che quella mattina Jaime Porcu non ci aveva preso,
fianta croppusu e basta!
[iv]” La voce di zio Francesco risuonava profonda in quelle gallerie e i vecchi binari aiutavano a orientarsi nel labirinto oscuro. A tratti il cammino si faceva silenzioso. Si sentivano solo i rumori dei nostri passi e il respiro pesante del vecchio. Più andavamo avanti nell’esplorazione, più aumentavano i silenzi. In principio li interpretai come pause necessarie a Zio Francesco per riprendere fiato, poi capii che taceva appositamente, voleva farmi sentire il respiro della montagna. Ogni tanto si arrestava e con l’indice alzato sembrava attirare la mia attenzione su un suono, uno scricchiolio, l’eco di un tonfo che probabilmente sentiva solo lui e che veniva da chissà quale luogo o tempo remoto e risuonava nel suo animo. Dopo alcune ore di cammino: “Saliamo su, alla seconda galleria, quella che sbuca davanti al Pan di Zucchero” dice l’anziana guida.” Lo scoglio più grande d’Europa, davanti a cui attraccavano le navi da trasporto” - dico io-, per mostrare al vecchio di non essere del tutto estraneo alla storia di quei luoghi. “L’ho visto, durante una gita in gommone, fatta proprio per ammirare i cinque faraglioni di cui il Pan di Zucchero è il re incontrastato. “Ehh”, sospira Francesco, “quanto tempo è passato, quante volte ho dato il cambio a Peppineddu e sono rimasto in bilico sullo strapiombo, aspettando che la stiva della nave di turno fosse piena…” La voce di Zio Francesco era lievemente cambiata, quasi si fosse riempita di malinconia, per qualcosa che non riusciva ad emergere, a tradursi in parole. “Mio padre, anche lui minatore, ha assistito all’inaugurazione della porta Vecelli, che di sua figlia ha preso il nome, nel 1922, Flavia. E mio nonno ha accompagnato in queste stesse miniere Gabriele D’Annunzio, nel 1882”. A quella rivelazione io - usando un’ironia di cui sicuramente zio Francesco non si è accorto, ho detto pensando al poeta abruzzese– “e il Vate non ha lasciato nemmeno una poesiola o una firmetta in questi luoghi, strano!”. Come è noto il D’annunzio è stato in Sardegna, nella primavera di quell’anno e come i cani che marcano il territorio ha lasciato un po’ in giro i segni del suo breve ma intenso passaggio, a Villacidro, a Oliena e Cagliari. “Oggi” ha ripreso l’anziano minatore- “è solo uno degli scorci più belli del nostro mare di Sardegna, eppure, se potesse parlare, ne avrebbe di storie da raccontare. Arrivano qui anche i giapponesi per ammirarla, questa benedetta porta Vecelli, ma io ho visto più di un compagno, vinto dalla stanchezza, addormentarsi su quella balaustra che dà al mare e alcuni, purtroppo cadere giù, come sacchi di cemento senza anima. Quando arriviamo in alto ti mostro il punto esatto dove ho visto finire tante giovani vite.”.
Procediamo ancora per un buon quarto d’ora, in cui il vecchio non parla più, il suo respiro si è fatto incerto, quasi come di chi ricorda, rimugina e insieme trattiene le lacrime. Per discrezione taccio anche io, fin quando in lontananza si vede un primo bagliore, poi una luce sempre più intensa. Ci siamo. Siamo arrivati. Un’ enorme porta in pietra e cemento, coronata dalla scritta Porto Flavia, si apre su un paesaggio unico al mondo. Sua Maestà il Pan di Zucchero giganteggia proprio di fronte a noi, rendendo con un effetto ottico ancora più grande lo strapiombo di un centinaio di metri che si apre sotto di noi. A proteggerci c’è solo una balaustra in cemento che ci arriva alla cintola. Un sistema di scale percorre la parete a piombo sul mare e sembra preso da un quadro di Eschere, quelli in cui non si comprende il sopra e il sotto, chi sale e chi scende, qual è lo sfondo e qual è il soggetto in primo piano. La luce che inonda tutto è potentissima, abbacinante, in relazione allo scuro della miniera. Il Pan di Zucchero o,
Concali su Terràinu, come ancora alcuni anziani locali lo chiamano, è un
faraglione che si erge dal mare svettando per 133 metri a poca distanza dalla costa, come una montagna che prenda vita dal mare e si stagli in verticale sfidando la gravità. Abituo pian piano la vista e volgo lo sguardo alla spiaggia di Masua, poi verso l’orizzonte infinito del mare, in cui si scorge indistinta la costa che arriva fino all’oristanese: tutto è luce e silenzio, mentre nel fondo il mare sembra placido, troppo lontano per far giungere fin qui il suo sciabordare. Mentre cerco di collocare dentro di me tutte queste sensazioni, scorgo zio Francesco che, con passo decisamente ringiovanito, è già salito per alcune scale. E’ giunto al parapetto più estremo della porta Vecelli, proprio dove un tempo collocavano la tramoggia di carico per le navi. Si volta un attimo e mi pare faccia cenno di raggiungerlo. Con mille attenzioni salgo anche io per quei gradini corrosi dalla salsedine e quando raggiungo l’anziana guida lui è in piedi sul parapetto. Non capisco come abbia fatto a sollevarsi fin là sopra e non comprendo nemmeno le parole che le sue labbra sussurrano all’orizzonte, forse una preghiera o chissà quale dialogo interno. Sotto di lui un balzo che sembra infinito. Il vecchio in ultimo si volta, mi sorride e senza un apparente motivo spicca un perfetto tuffo all’indietro. Come in una scena al rallentatore non ho il tempo e il modo di fare nulla se non vedere quel corpo volare, improvvisamente elastico, elegante, flessuoso. Zio Francesco spalanca le braccia e il vento strappa via la coppola dalla sua testa, gli scompiglia i radi capelli, fa svolazzare la sua giacca tanto che sembra avere le ali, quelle di un uccello preistorico che, in un perfetto moto a planare, esegue un impeccabile tuffo a volo d’angelo, con il quale arriva giù e scompare. Nel mare.
[iii] … che la giustizia lo perseguiti; [iv] erano botte e basta. Motivazione della Giuria
Una scrittura fluida capace di evocare paesaggi naturali e dell’anima. Luoghi disegnati con l’inchiostro indelebile delle proprie radici, col colore vivo del rispetto per ogni vissuto. Un viaggio all’insegna di una bellezza che non urge essere interpretata, bensì vissuta.
Assunta Spedicato.
Nota del Presidente di Giuria
Al termine di questa lettura si po’ sentire l’odore pregnante dello zolfo della miniera, o l’acre sudore dei minatori, le loro fatiche, le loro lacrime. La memoria vivente dello zio Francesco conduce il giovane per labirinti tortuosi in una visita sconvolgente e pregna di sensazioni. L’epilogo è significativo di una intera vita immolata al lavoro e alla sofferenza, con la fermezza e la determinazione di genti antiche, sempre artefici del loro destino pur se oppresse, ma sempre pronte a spiccare l’ultimo volo di libertà.
Giuseppe Laterza.