Il film: “Il tempo che ci vuole”, tra cinema e vita, un sentito omaggio al grande Comencini da parte di sua figlia Francesca
Il film racconta una storia commovente di amore paterno e filiale tra il set, le vicende personali e quelle della società che cambia
«Prima la vita e poi il cinema» urla a un dato punto il regista Comencini al suo assistente che sta trattando male gli abitanti di Farnese, il villaggio dove stanno girando Le avventure di Pinocchio (1972), perché disturbano la lavorazione. E la precedenza della vita sul cinema – che però viene subito appresso – è la chiave per comprendere questo atto di amore che Francesca Comencini ha voluto rendere a suo padre, al punto di focalizzare il rapporto che li ha legati a loro due soli: non c’è la madre, non ci sono le sorelle, ma solo un grande appartamento quasi vuoto dove la vita scorre con le sue illuminazioni e i suoi drammi.
Loro due: la bambina affascinata dal papà capace di dar vita al burattino di Collodi, ma anche spaventata dalle immagini del pescecane-balena che sembra incombere sulle loro vite; il regista che non ha mai fatto autobiografismo nei suoi film, che ha cercato di parlare alla gente in un linguaggio comprensibile pur trattando temi impegnativi e che soprattutto si è preso cura della figlia quando lei, entrata nell’adolescenza, comincia a perdersi in progetti sconclusionati fino a cadere nell’autolesionismo della tossicodipendenza. A quel punto non c’è lavoro che tenga: il padre si dedica alla figlia per tutto il tempo che ci vuole finché lei non si sente completamente guarita. Sarà poi la figlia ad assistere il padre affetto dal morbo di Parkinson, ma ancora desideroso di stare sul set: «È proprio un bel mestiere il nostro», le confida mentre sta girando il suo ultimo – non memorabile – film, Marcellino pane e vino (1991). Anni dopo il regista scriverà: «Se non ci fosse stata mia figlia Francesca a parlare per me, a sostenermi sempre, non lo avrei potuto finire. Attraverso il ricordo del mio corpo stanco mi rimane la grande gioia di aver passato un bel periodo accanto a lei».
Si tratta un film autobiografico, nel rapporto confidenziale, poi conflittuale, infine complice tra Luigi e Francesca si coglie una dimensione universale data dal ciclo vitale che porta a restituire quanto si è ricevuto per amore.
C’è poi l’altro amore che li unisce: il cinema. La regista punteggia la prima parte del film con immagini dal Pinocchio (1911) di Antamoro (una delle tante pellicole mute salvate dalla solerzia di Lugi Comencini e da suo fratello Gianni che nel dopoguerra fondarono la Cineteca Italiana di Milano); poi, nella seconda, vediamo L’Atlantide (1932) di Pabst, L’enfance nue (1968) di Pialat, Paisà (1946) di Rossellini (che commuove il vecchio Comencini), i richiami alle ambientazioni del celebre film parigino di Bertolucci del 1972, per arrivare al gran finale dove si vola sulle immagini di tanta celluloide per andare incontro a quella balena che tanto spaventava la piccola Francesca, ma che Luigi le ha insegnato ad accettare: la morte.
L’omaggio che viene reso a Luigi Comencini, poi, commuove e riscatta un colpevole oblio verso la sua variegata carriera.
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