Festival di Venezia 2011 Procacci: «Black Block è la prova generale di Diaz»A parlare del nuovo film sui fatti violenti del G8 del 2001 è il produttore di Fandango, nell’ambito della conferenza stampa di Black Block, documentario proiettato ieri nella sezione Controcampo
Marita Toniolo - 07/09/2011 “Non c’è niente di più efficace delle immagini vere. Black Block è nato dall’esigenza che avevamo di documentarci su Diaz di Daniele Vicari, le cui riprese finiscono proprio domani a Genova”. A dichiararlo è il “frontman” di Fandango Domenico Procacci nell’ambito della conferenza stampa del documentario Black Block presentato ieri nella sezione Controcampo sul blitz della polizia e sulle successive torture avvenute nella caserma di Bolzaneto. Il film di Vicari di cui parla non sarà un documentario come Black Block, ma un film vero e proprio che avrà come protagonisti Elio Germano e Claudio Santamaria e che ha incontrato da subito grandissime difficoltà nel trovare un distributore. “Avevamo bisogno di una documentazione accurata dei processi e dei fatti e Black Block ce l’ha fornita” ha continuato il produttore. Che è anche intervenuto quando i giornalisti del film hanno chiesto all’autore del doc Carlo A. Bachschmidt, se non gli sembrava che il suo punto di vista fosse troppo parziale, dicendo: “Negli spazi sempre più ridotti che viene concesso a queto genere di opere era giusto che fosse così. Non è come un dibattito politico, è un’opera di fiction e non necessita del contraddittorio”.
Gli ha fatto eco il regista: “Ho sposato in toto il punto di vista delle vittime e sono felice di aver contribuito attivamente alla risoluzione dei processi, sostenendo il lavoro degli avvocati”. Alle due testimoni-vittime presenti nel doc è stato chiesto se siano ancora in contatto tra di loro. Hanno risposto: “Eravamo in 93, di cui il 73 % stranieri e siamo ancora molto uniti”. Riguardo alle sentenze in tribunale, il regista ha così risposto: “C’è stato un primo grado in cui tutti i funzionari sono stati assolti e gli agenti condannati, all’appello sono stati condannati tutti, ora siamo in attesa della Cassazione”. Il regista infine ha chiarito le intenzioni del suo film: “Volevo raccontare il superamento del trauma di quei fatti e la trasformazione in attività politica più consapevole.
A che ora è la fine del mondo? Alle 4:44 per Abel FerraraToni profetici e moralisti nella Apocalisse del regista americano in Concorso a Venezia. La nostra recensione
Marita Toniolo - 07/09/2011 Che cosa fareste se vi rimanessero poche ore da vivere? Parte da questa domanda 4:44 Last Day on Earth di Abel Ferrara in concorso alla 68ma Mostra di Venezia. Il regista non ha dubbi sull’imminente fine del mondo causata dall’assottigliamento dello strato d’ozono che circonda la Terra e anzi suggerisce un orario preciso: le 4:44 del titolo, di un’imminente notte a New York. Col poco tempo a disposizione, i due protagonisti del film, Cisco (Willem Dafoe) e Skye (Shanine Leigh, ex del regista), due artisti che vivono in un bel loft della Grande Mela, decidono di non fare nulla di particolare e di rimanere semplicemente vicini. Di fronte all’ineluttabile sconvolgimento del pianeta il regista sceglie però di non concentrarsi sul mondo fuori (pochissime le riprese in esterno), ma sull’intimità dei gesti dei due personaggi principali che hanno accettato serenamente il proprio destino. Quando la catastrofe arriva non indulge sulla spettacolarizzazione dell’apocalisse, ma torna a concentrarsi sulla coppia, sul loro abbraccio, sulle frasi che si sussurrano.
Abel il Profeta? A quattro anni da Go Go Tales, l’imprevedibile Ferrara torna al cinema con un apologo ecologista, moralista e politico. Assume toni da predicatore prendendo in prestito frasi dal Dalai Lama e da Al Gore e non risparmiando ogni tipo di accusa ai governi del mondo per non aver impedito il disastro ambientale che porterà il mondo all’inevitabile catastrofe, ma per lo spazio concesso all’esplorazione dei sentimenti umani di fronte all’apocalisse rievoca il Melancholia di Lars Von Trier.
Comencini, «Le risate? Sono reazioni alle scene più commoventi»La regista risponde alle risate con cui è stato accolto il suo film Quando la notte in concorso a Venezia
Emanuela Genovese - 07/09/2011 «Si fugge dalle emozioni ridendo». È la risposta di Cristina Comencini alle reazioni in sala della stampa italiana e internazionale presente alla proiezione di Quando la notte. La regista italiana, durante la conferenza stampa di presentazione del suo film, ha risposto così alla domanda sulle risate in sala: «Ai Festival non ci si vuole emozionare. Ci sono alcuni momenti molto emozionanti durante il film e gli spettatori hanno preferito reagire in questo modo». «Abbiamo ridotto all’essenziale i dialoghi», aggiunge Doriana Leondeff, sceneggiatrice, «lasciando battute secche ed efficaci. È lo stile del film che non è la trasposizione della trama del romanzo, ma racconta una suggestione». Seconda pellicola italiana in Concorso Quando la notte, adattamento dell’omonimo romanzo della Comencini, è l’incontro di due solitudini: quella di Marina (Claudia Pandolfi), una madre che trascorre un mese in montagna da sola, per far guarire il figlio di due anni, e Manfred (Filippo Timi), una guida del Monte Rosa, abbandonato dalla mamma quando era bambino e dalla moglie. Al centro del film quindi la maternità con le sue contraddizioni e con le sue paure. «Si parla poco», spiega la regista, «nella letteratura e nel cinema della disperazione della madre, che senza un compagno al suo fianco, non potrebbe gestire un figlio. Si parla solo dell’istinto materno e si tace sul sentimento ambivalente che nasce dal legame tra una madre e un figlio. Un legame che rischia di strozzare la madre. Non ho mai pensato agli eventi di Cogne, ma forse era nel mio subconscio». «Forse le risate», prova a dare una spiegazione Claudia Pandolfi, «erano isteriche. Durante le riprese ho sentito questo sentimento travolgente. È un film molto intimo e duro. Nessuno ti insegna a essere genitore. È capitato anche a me, come madre, di avere una reazione diversa da quello che chiamano istinto materno». Tra i personaggi del film anche Stefan e Albert, i due fratelli di Manfred (Thomas Trabacchi e Denis Fasolo) che hanno reagito all’abbandono della madre in modo diverso. Stefan, sposandosi con la donna che ama, Bianca (una brava Michela Cescon) e costruendo una famiglia sul dialogo e sulla collaborazione, mentre Albert, il più giovane e il più fragile, cercando rapporti facili con le donne. «Nel film», prosegue la regista, «non si parla solo della maternità, ma anche del rapporto tra uomo e donna. Credo che gli uomini non riescano fino in fondo a capire una donna, che a volte diventa un’eroina quando riesce a gestire se stessa e un figlio anche in circostanze non facili, come quando deve stare tutto il giorno chiusa in casa. Volevo rimettere l’uomo al centro dell’essere genitori. Senza l’aiuto di un uomo diventa impossibile per una donna gestire la sua maternità». Nelle sale italiane il film sarà distribuito dal 28 ottobre per 01 Distribution. (Foto Getty Images)
Risate e imbarazzo in sala per il film della ComenciniParte male l’avventura al festival del film della regista italiana, Quando la notte, presentato in concorso. La recensione di Best Movie vi spiega perché
Marita Toniolo - 07/09/2011 Risate in sala durante i momenti più drammatici e un generale imbarazzo, non solo da parte della stampa italiana, ma anche internazionale. Comincia davvero male l’avventura al Festival di Venezia di Quando la notte, il nuovo film di Cristina Comencini, presentato nella sezione Concorso. Il film in realtà parte bene e in modo ambizioso. Vedute panoramiche magnifiche di paesaggi montani e una casa isolata alla fine del paese, in cui una madre porta il suo piccolo di due anni a prendere aria buona. Si respira immediatamente un’atmosfera thrilling, amplificata da quella tipica villetta di montagna, che richiama come un riflesso pavloviano Cogne e il caso Franzoni. Il bambino non respira benissimo e il dottore ha consigliato il ritiro in montagna. La donna, Marina (Claudia Pandolfi), vive al piano superiore della tipica casa di montagna. Al piano di sotto abita il padrone di casa, Manfred (Filippo Timi), guida turistica solitaria e silenziosa che rifugge il contatto umano, specie dopo che la moglie lo ha lasciato portandosi via i figli. Emerge da subito uno dei temi più caldi del racconto, tratto dall’omonimo romanzo della regista: la difficoltà delle donne a gestire emotivamente la cura dei bambini. “Li chiamano i terribili due” suggerisce la pediatra, quando i bambini non parlano e non dormono mai. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che porterà presto la giovane donna a una stanchezza fisica che si tradurrà in una fragilità emotiva a tratti pericolosa. A coglierla è proprio Manfred, abbandonato dalla madre a soli dieci anni, ha sviluppato una misoginia incrollabile. Una sera Manfred sente un gran trambusto, il bambino è caduto da uno sgabello, ha iniziato a piangere, Marina gli ha urlato contro e poi si sente un colpo secco sul pavimento. L’uomo corre in soccorso del bambino ferito alla testa e scongiura la tragedia, ma da quella sera sospetta di lei. I due prima si allontanano e poi lentamente si avvicinano.
Davvero tanta la carne messa al fuoco dalla Comencini: la depressione successiva alla maternità, il trauma dell’abbandono, una storia d’amore impossibile. Gestire un materiale così a rischio di scivoloni retorici non è cosa facile, ma se nella prima parte del film la regista riesce a sedurci, limitandosi a suggerire, da circa metà film in poi si perde in un eccesso di spiegazioni e suggerimenti di derivazione psicanalitica sulle cause dei comportamenti dei personaggi che condizionano pesantemente il ritmo del film. In particolare, i dialoghi intimi tra i due sono quelli che hanno suscitato l’ilarità della stampa e che avrebbero richiesto una maggior sorveglianza. Pandolfi – più sofferta del solito – risulta convincente, mentre Timi – che solitamente ha offerto ottime prove, qui necessitava di essere meglio guidatoVenezia 68, Ritual: prime immagini del film psicomagicoIn anteprima al festival di Venezia un’anticipazione del primo film girato con il supporto tecnologico delle epic camera
Adolis Fitwi - 07/09/2011 Le prime sequenze del film Ritual – A psychomagic story saranno presentate al Lido in anteprima mondiale oggi 7 settembre, in un evento collaterale alla 68esima Mostra del cinema Venezia, organizzato dalla Regione del Veneto e dalla Vicenza Film Commission. Girato nel profondo nord del Veneto rurale Ritual è il primo film europeo interamente realizzato con le nuovissime epic camera, tecnologia usata fino ad ora nelle mega-produzioni internazionali di Lo Hobbit e The Amazing Spider-Man. La pellicola, diretta dai due giovani esordienti Giulia Brazzale e Luca Immesi, è un noir psicologico scritto sotto la supervisione del regista americano Jeff Gross. già sceneggiatore di alcune pellicole di Roman Polanski (in concorso a Venezia con Carnage). In Ritual si racconta la tormentata storia d’amore tra la giovane e succube Lia (Desirée Giorgetti) e il sadico Viktor (Ivan Franek), un cinico ed egocentrico avvocato 40enne. Il rapporto tra i due amanti viene definitivamente compromesso quando Lia, rimasta incinta, viene messa di fronte a un terribile diktat da Victor: o lui o il bambino. La dolorosa scelta dell’aborto conduce Lia alla depressione e a un tracollo psicofisico. Nel film le forti tematiche centro della vicenda – dall’amore alla maternità negata dall’aborto – vengono affrontate dagli autori, imprimendo alla narrazione filmica una dinamica da trhiller.
Ritual – A psychomagic story co-prodotto da Esperimentocinema vede nel cast anche l’attrice Anna Bonasso, il regista e filosofo cileno Alejandro Jodorowsky (Santa sangre) e l’attore teatrale e volto di molte fiction tv Cosimo Cinieri.Venezia 68, Colin Firth: Dove tengo il mio Oscar? Chiedetelo ai miei bambiniBest Movie incontra il premio Oscar per Il discorso del Re, che a Venezia è in Concorso con La talpa
Marita Toniolo - 06/09/2011 L’Oscar? Sembra esserselo già dimenticato. «Dove tengo la statuetta? Dovunque la mettano i miei bambini». Nella sua casa in Inghilterra o in Italia? «Non lo so davvero». Un po’ blasè e un po’ basso profilo, Colin Firth si presenta a Best Movie con quell’aplomb britannico che ne ha fatto per tanti anni il perfetto Mr. Darcy di una preziosa versione di Orgoglio e pregiudizio per la Tv inglese agli imizi della sua carriera. Un vero Englishman a Hollywood che, pur avendo vinto l’Oscar e avendo a disposizione qualunque ruolo avesse voluto, ha preferito partecipare al supercorale La talpa (in originale Tinker, Taylor, Soldier, Spy) di Tomas Alfredson in Concorso alla Mostra, dove recita in un ruolo non principale accanto ad altri grandi attori come Gary Oldman, Mark Strong, John Hurt e al futuro cattivo del Batman di Nolan Tom Hardy.
Best Movie: È affascinante interpretare una spia. Qual è stato l’aspetto che l’ha intrigata di più?Colin Firth: Il motivo per cui le spie attirano è perché sono un insieme affascinante di elementi assortiti. Vite spericolate, macchine incredibili, grandi scene d’azione, ma anche il loro linguaggio segreto. Come James Bond.BM: Avrebbe mai voluto fare la parte di Bond? Ci ha mai pensato? Avrebbe potuto fare qualsiasi altra cosa dopo aver vinto l’Oscar, perché ha scelto proprio un film, dove per giunta non è il protagonista e deve dividere la scena con così tanti attori?CF: La vittoria agli Oscar è stato un momento un po’ particolare l’anno scorso. Breve, intenso e un po’ isterico. È stato bello far parte di un progetto fresco come questo. Non essere troppo sotto i riflettori. Respirare quell’atmosfera così ensemble.BM: Come ha costruito il suo personaggio?CF: La sua vita è dominata dal sospetto e dalla fiducia. Vive nel continuo dubbio che colui che considera un amico e un fratello sia in realtá la talpa.BM: Ha conosciuto John Le Carrè, dal cui romanzo è tratto il film?CF: L’ho incontrato prima di questo film e siamo ancora in contatto. Compare anche nel film, in un piccolo cameo è anche nel film. Il suo endorsement ha avuto una certa importanza.BM: Ha conosciuto delle spie per prepararsi al ruolo?CF: No. Oddio, forse…BM: Il suo personaggio è un po’ ambiguo, non è vero?CF: Sì, vive questa sorta di bisessualità. Ha un’amicizia con implicazioni omosessuali e un rapporto molto difficile con la moglie. È solo e così umano nella sua vulnerabilità…BM: Le è piaciuto muoversi in questi ambienti che miravano a ricreare l’atmosfera della Guerra fredda?CF: Assolutamente sì. Era davvero come far parte di un’epoca precedente a tutto quello che esiste oggi. Così sofisticata e vittoriana.BM: Ha appena finito di girare Gambit, il remake del film con Michael Caine. Cosa ci può dire?CF: È un perfetto heist movie (film di rapina, ndr). Con un tono molto farsesco… (Foto: Getty Images)
Himizu: la tragedia del Giappone in scena al FestivalPresentato in concorso il film di Sion Sono, tratto dal manga omonimo. Racconta di un ragazzino che noleggia barche sul suo paese allagato dall tsunami e non si arrende alle avversità.
Ve lo raccontiamo dal Lido
Giorgio Viaro - 06/09/2011 Era lecito aspettarsi qualche riferimento all’11 marzo nel primo film giapponese in concorso a Venezia 68 e prodotto dopo la doppia tragedia, tsunami e nucleare, che ha colpito il Sol Levante sei mesi fa. Non era invece scontato che quel disastro non solo fosse al centro del film, ma ne costituisse addirittura la ragione d’essere e la chiave interpretativa.
Tanto più che Himizu (il titolo fa riferimento a un certo tipo di talpa), del prolificissimo Sion Sono (era anche un anno fa al Lido, poi è stato a Cannes, e tra poco il Torino Film Festival gli dedicherà una retrospettiva), è tratto in realtà da un manga per teenager, che racconta la vita di un ragazzino idealista e il suo rapporto di amore/odio con una strana coetanea. Il giovane Sumida infatti, nonostante un padre indebitato, e una madre assente, cerca testardamente di costruirsi un’esistenza dignitosa: non gli interessa il successo, né una grande felicità, vuole solo essere sereno e rispettabile. Ad aiutarlo, l’amore di Keiko, una compagna di classe un po’ folle che ama la poesia francese. Purtroppo sulla strada di Sumida c’è la yakuza, che pretende la restituzione di un prestito fatto dal padre, e soprattutto le violenze di quest’ultimo.
Nel film, che è stato ripensato dopo la tragedia collettiva e che si apre con una panoramica onirica di devastazione post-tsunami, il ragazzo gestisce un noleggio barche su una zona allagata da cui spunta il tetto di una casa. Intorno alla sua baracca altri senzatetto vivono in piccole tende da campeggio.Tutto insomma sembra complottare contro i propositi di Sumida: la sua famiglia disgraziata, la natura, i debiti, perfino gli insegnanti. Il mondo di Himizu è infatti popolato da adulti cinici e spietati (i genitori di Keiko le stanno costruendo e addobbando un patibolo, con tanto di cappio), giovani pazzi o delinquenti (ci si accoltella per strada senza ragione), e condizioni ambientali proibitive.
Un mondo al quale Sumida però non si arrende, nonostante un momentaneo cedimento, incarnando così le risorse spirituali di un popolo sull’orlo del collasso ma ancora vitale.Questa metafora è raccontata attraverso simbolismi di facile lettura (i sassi nelle tasche) o addirittura prediche esplicite (l’attivista che denuncia alla TV le menzogne del governo sul nucleare), e non rinuncia mai agli accenti grotteschi tipici del regista, molto marcati anche tenendo conto del gap culturale e linguistico. Ogni cosa è ripetuta almeno sei volte, e generalmente strillata.Ma si sente che il tema è caldo e la commozione di attori e personaggi genuina. Per chi vuol farsi un’idea di come gli artisti giapponesi e la gente comune stiano metabolizzando la disgrazia, un’occasione da non perdere.
The Moth Diaries: le vampire vanno al collegePresentato fuori concorso il film di Mary Harron, tratto da un celebre romanzo teen-horror. La nostra recensione in anteprima
Giorgio Viaro - 06/09/2011 Continuano a provarci, e di certo non sarà questa l’ultima volta: tra i presunti epigoni della Twilight Saga va infatti aggiunto The Moth Diaries di Mary Harron, presentato fuori concorso a Venezia 68, e ambientato in un collegio femminile, dove la sedicenne Rebecca (Sarah Bolger) si appresta ad iniziare un nuovo anno scolastico ben decisa ad annotare ogni cosa sul suo quaderno privato.
Tutto bene, finché la robusta bidella tuttofare Miss Rood non le deposita nella camera di fronte la nuova arrivata Ernessa, altissima e silenziosa (Lily Cole, già vista in Parnassus). Ernessa diventa subito intima con Lucy, l’amica del cuore di Rebecca, mentre tra le due dirimpettaie l’amicizia non decolla, nonostante un comune trauma pregresso (entrambe hanno avuto un padre suicida). Passano i giorni, e cominciano a fioccare le stranezze: dalla stanza di Ernessa sale un aroma dolciastro, sciami di falene si accalcano sulle vetrate, e un misterioso malessere sembra pian piano consumare Lucy. Sarà mica un vampiro la matricola? L’unico che sembra capire è il prof di lettere (Scott Speedman), ma in realtà pure lui su Rebecca ha altre mire.
Ebbene, l’unica spiegazione possibile per cui il film sia stato invitato a Venezia, è che alla regia c’è un autrice di discreto nome: la Harron ha già firmato American Psycho e La scandalosa vita di Betty Page. Ma le ipotesi finiscono qui. The Moth Diaries è una versione tutta al femminile dei vari college-horror vampireschi, in cui i punti di forza del romanzo d’origine – la scoperta della propria sessualità che assume connotazioni “mostruose”, il senso di accerchiamento spesso provato dagli adolescenti, il ruolo ambiguo dei professori nell’educazione sentimentale dei teenagers – sono annacquati da una messa in scena e da un montaggio preoccupati solo di arrivare ai titoli di coda il più in fretta (nemmeno 90 minuti) e il più al sicuro possibile.
La traccia del sangue attraversa il film – il sangue mestruale, l’epistassi (sangue dal naso), le vene recise nei flashback del padre suicida – ed avrebbe il potenziale per caricarlo di inquietudini, ma la Harron, evidentemente addomesticata dalla produzione, tira il freno tutte le volte che può e per di più tagliuzza a tal punto la trama da rendere la crescente paranoia di Rebecca praticamente incomprensibile. Resta un vampire movie con una sola sequenza perturbante (per altro copiata di sana pianta da Carrie – Lo sguardo di Satana) che non piacerà a quasi a nessuno, fatta forse eccezione per qualche fan del romanzo d’origine.
Venezia 68: Olmi: «La Chiesa è la casa»L’immigrazione clandestina al confronto con la carità cristiana nel film del Maestro del cinema italiano, Il villaggio di cartone, presentato oggi fuori concorso
Marita Toniolo - 06/09/2011 È un Olmi dalle intenzioni come sempre profondamente ecumeniche quello che emerge dal film presentato oggi fuori concorso alla Mostra. Il titolo Il villaggio di cartone si riferisce al gruppetto di tende che una ventina di clandestini improvvisa all’interno di una chiesa dismessa. Ad accoglierli è il prete “congedato” della parrocchia, che sta vivendo una profonda crisi personale da quando non può più assolvere le sue funzioni. L’arrivo dei clandestini lo risolleva dall’apatia, ma nello stesso tempo gli solleva nuovi e continui dubbi. Intanto, nel piccolo villaggio emergono le varie personalità degli stranieri accolti: c’è la giovanissima vedova silenziosa, il giovane idealista, la prostituta elegante e generosa, l’aspirante kamikaze, l’ingegnere illuminato e via dicendo. Le intenzioni del film, che ha visto anche la consulenza di Claudio Magris e Monsignor Ravasi, sono nobili e sincere, ma il film risulta oppresso dalle intenzioni quasi profetiche del regista, dall’abuso di sentenze e dall’eccesso di simbolismo della rappresentazione. Anche i personaggi finiscono per appiattirsi, perché funzionali alla tesi di fondo, divenendo essi stessi simboli.
Olmi ha conservato il tono del film anche durante la conferenza stampa, in cui ha sottolineato con fervore quanto per lui sia centrale il tema della carità cristiana. Ecco cosa ha detto ai giornalisti.
Ventitré anni dopo La leggenda del santo bevitore è tornato a lavorare con Rutger Hauer. Com’è proseguita la vostra relazione umana e professionale da allora? Ermanno Olmi: Umanamente non si è mai interrotta. Rutger è una persona così carina che quando ero in ospedale ad Asiago ha fatto di tutto per venirmi a trovare anche solo per dieci minuti, ma non si è reso conto che c’erano ottocento chilometri a separarci. Del resto non ha il senso dei chilometri, perché viene da mondi lontani…Rutger Hauer: È vero, ho fatto di tutto per venire a trovarlo, ma in effetti la distanza era tanta. Sono stato felice dopo tanti anni di tornare a lavorare con Ermanno. È un tema importante e mi sento onorato di essere stato scelto.
Nel suo film c’è una chiesa trasformata in rifugio per gli immigrati, in cui gli oggetti della chiesa vengono utilizzati come legna da ardere per scaldarsi o come strutture per creare una sorta di capanne. Che cosa voleva suggerire con questa immagine?EO: Chiaramente quelle scene sono finalizzate a segnalare che più ci liberiamo degli orpelli, più entriamo in contatto autentico con le persone, altrimenti siamo solo maschere di cartone. La chiesa è la casa, se non apriamo la casa agli altri anche la nostra casa interiore non si apre agli altri uomini. E ci tengo a dire che gli orpelli dei conformismi culturali sono più pericolosi e nocivi di tutti gli altri.
Con questo film voleva sottolineare che la Chiesa non ha questo tipo di accoglienza?EO: Quello che vorrei fare è suggerire ai cattolici, e io sono tra questi, di ricordarsi di essere più volte cristiani che cattolici.
Nel gruppo dei clandestini che si rifugia nella chiesa c’è la presenza inquietante di un ragazzo che finisce per diventare un kamikaze. Che significato assume questa figura nel film?EO: Innanzitutto bisogna ricordarsi che il film è un apologo non realistico. Ogni personaggio è un simbolo. Chi è questo ragazzo che decide di non accettare la relazione col diverso? Commettere un atto violento è un modo per non dialogare con gli altri. Da parte mia era anche un modo per dire che tra gli immigrati non ci sono solo i santi. Anche tra loro c’è chi mette le bombe…
Come mai il suo prete ha così tanti dubbi riguardo alla fede? EO: La vera fede è quando il peso dei nostri dubbi è superiore alle nostre convinzioni. Non devono essere gli altri a pensare per noi, dobbiamo pensare in proprio e non affidarci alle istituzioni.
In tanti anni in cui riflette su queste questioni i dubbi le si sono sciolti? EO: Io non ho mai smesso di interrogare Dio. Nei momenti più difficili ognuno di noi è portato a chiedere: «Dio, dove sei?». Sa perché non risponde? Perché dobbiamo rispondere noi.
A quale chiesa si riferisce, a quella con la C maiuscola o minuscola? EO: Mi riferisco alla comunità umana. Per me non solo siamo tutti fratelli, ma anche della medesima origine. Molti problemi del mondo si risolverebbero se lo tenessimo sempre presente. Continuerò a ripetere queste cose. È la mia forza… Sarà piccola, ma è la mia forza…
Nella sua chiesa sconsacrata non c’è il Cristo dei sacramenti. Non c’è il rischio di ridurre il cristianesimo alla semplice accoglienza? EO: Cosa ci può essere di più importante dell’accoglienza? La sacralità dei simboli? Il simbolo deve farsi carne per poter essere efficace. Di fronte a un Cristo di un cartone come quello del film tutti si inginocchiano, ma inginocchiamoci piuttosto di fronte a coloro che soffrono. I ragazzi persi nella droga pagano per noi, come Cristo ha lavato per noi le nostre colpe. È troppo comodo inginocchiarsi di fronte a questo simulacro.
Per seguire in diretta il Festival di Venezia 2011 visitate la nostra sezione dedicata che aggiorneremo giorno per giorno con tutte le novità!Cime Tempestose agitano il FestivalOttima accoglienza per il classico di Emily Bronte, nella rilettura di Andrea Arnold. Che gira un classico melò dell’Ottocento con realismo quasi documentario. La nostra recensione
Giorgio Viaro - 06/09/2011 Dicevamo giusto ieri, parlando de La Talpa, di come un periodo storico recente – gli anni ’70 e la Guerra Fredda – venisse messo in scena alla stregua di un mondo puramente letterario, lontano da ogni pretesa di realismo.È accaduto oggi esattamente il contrario con la rilettura iperrealista di Cime Tempestose fatta dalla taletuosa regista inglese Andrea Arnold (un’altra che ha lavorato di recente con Michael Fassbender, in Fish Tank), presentata oggi in concorso a Venezia 68.
Il romanzo, ambientato nella seconda metà del ‘700, racconta la tormentata storia d’amore, mai coronata, tra Heathcliff e Catherine (James Howson e Kaya Scodelario). Heathcliff è un orfano dalla pelle scura, adottato dal padre di Catherine, Mr. Earnshaw, e trattato come un figlio. A non essere dello stesso parere è il maggiore degli Earnshaw, che alla morte del padre assume il controllo della tenuta di Wuthering Heights, obbligando Heathcliff a lasciare gli studi e iniziando a frustarlo come uno schiavo.Nel frattempo, per una serie di coincidenze, Catherine, pur legata a Heathcliff da un sentimento molto forte, inizia a frequentare Edgar, un ragazzo di buona famiglia di una tenuta adiacente a Wuthering Heights. Da quel momento in poi le vite di Heathcliff e Catherine si allontaneranno sempre di più, e il rancore e la delusione rovineranno il futuro di entrambi.
Di questo classico melò in costume, tratto da uno dei romanzi più celebri e filmati (Wyler, Bunuel, Fuest) della letteratura vittoriana, la Arnold propone una versione depurata dagli elementi soprannaturali (nel libro la storia viene riferita molti anni dopo i fatti a Mr.Lockwood, un visitatore di Wuthering Heights che si trova a fare i conti con strane apparizioni) e concentrata principalmente sull’adolescenza di Catherine e Heathcliffe (il film copre solo la prima parte del romanzo), raccontata al presente.Il loro apprendistato sentimentale e la successiva separazione sono descritti con toni contemplativi a attraverso pochissime battute, soffermandosi sulla natura erotica del loro rapporto (Catherine che lecca le ferite di Heathcliffe, Heathcliffe che la trattiene nel fango) e legandola alla natura selvaggia delle colline del nord dell’Inghilterra e ai molti dettagli della vita di campagna (i capretti sgozzati, le lepri uccise, i cani liberi per la brughiera, le falene che assediano gli infissi delle finestre).
Il trattamento funziona, riportando un racconto consunto dall’abitudine e dai banchi di scuola alla sua natura primigenia (in origine il romanzo fu “contemporaneo”, perché scritto a metà dell’Ottocento su fatti che terminavano quasi a quei giorni) e ad una consistenza quasi documentaria, come se i fatti potessero accadere, in questi stessi giorni, da qualche parte, magari tra le fitte colline padane.Non rinunciando però al formato e al modo con il quale è solita girare – il 4:3, con tantissima camera a mano – la Arnold condanna l’immaginario scelto a limiti visivamente angusti. Ne vengono soffocati i panorami e amplificati i primissimi piani (per una foto che amate preferireste una cornice larga?), rendendo una volta di più il suo cinema, cinema di dettagli e silenzi.ai Dardenne il premio BressonGli acclamati registi belgi premiati a Venezia per la loro filmografia da sempre attenta alle tematiche sociali
Cristina Penco - 06/09/2011 Sono stati i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, i registi belgi de Il ragazzo con la bicicletta (Gran Premio della Giuria a Cannes 2011), a ricevere il 12° Premio Robert Bresson. La cerimonia si è tenuta ieri mattina all’Hotel Excelsior del Lido, in occasione della 68ª Mostra del Cinema. A consegnare il riconoscimento, attribuito annualmente dalla Fondazione Ente dello Spettacolo ai cineasti attenti alle tematiche umane e sociali, è stato Monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. (Foto Getty Images)Fassbender: «Conosco a memoria Il grande Lebowski»L’attore più ricercato di Hollywood parla a ruota libera con Best Movie, in un’intervista esclusiva, dei recenti ruoli, delle sue passioni cinefile, del suo amore per gli italiani e per il nostro modo di guidare…
Marita Toniolo - 05/09/2011 Quando è sullo schermo sembra un gigante: Magneto, Jung, il pornodipendente di Shame, personaggi ambigui, potenti, carismatici, dissoluti, a cui regala quella sua capacità unica e personalissima di bucare lo schermo. Di persona, invece, Michael Fassbender è un tranquillo ragazzo irlandese (classe ‘77) che scherza sui fantomatici party a cui partecipa a Venezia e sulle troppe birre che beve. Non deve scherzare molto giacché da quando è qua solo sui red carpet toglie gli occhiali da sole dalle lenti fumé, con cui nasconde i bagordi della sera precedente. Best Movie ha incontrato a quattr’occhi l’attore più richiesto, amato e corteggiato del momento. Un timbro di voce talmente profondo che sembra tracciare solchi nell’aria, con indosso una semplice camicia nera coordinata con le scarpe e un paio di Levi’s scuri, ha parlato tanto di cinema, ma non solo, anche di passioni, hobbies e molto altro ancora. Ecco cosa ci ha raccontato:
Best Movie: Lei è in Concorso con A Dangerous Method e Shame. Ma anche Tomas Alfredson la voleva per Tinker, Taylor, Soldier, Spy. Ha rischiato di non avere concorrenti qui alla Mostra per la Coppa Volpi…Michael Fassbender: Ho cercato di estendermi a macchia d’olio e di eliminare ogni possibile concorrente.
BM: Perché secondo lei in questo momento tutti i registi più importanti, da Cronenberg, passando per Tarantino, fino al suo amico Steve McQueen vogliono proprio lei?MF: Non so… è un po’ come quando tutti vogliono l’hula hop… Io penso semplicemente di essere un ragazzo molto fortunato, che per una particolare congiuntura astrale o allineamento dei pianeti sto vivendo un momento molto fortunato.
BM: Non pensa di esserselo meritato dopo aver tanto lavorato?MF: C’è un sacco di gente che lavora sodo come me, ma non ottiene tutto questo. Io penso semplicemente che si tratti di destino
BM: Ha raccontato che per preparararsi ai film legge centinaia di volte i copioni, in più sembra sempre in cerca di ruoli molto complessi. Per lei la recitazione è una cosa dannatamente seria, non vero?MF: In effetti, è proprio così. Probabilmente risponde al mio bisogno di essere focalizzato profondamente in qualcosa e di metterci tutto me stesso. Ed è anche vero che cerco sempre ruoli che pongono tantissime domande a cui non è facile rispondere. Quando ho lavorato sul personaggio di Shame, ad esempio, mi sono chiesto se anche io avessi una parte simile dentro di me. E’ un processo continuo.
BM: Per Hunger Steve McQueen l’ha fatta dimagrire 18 chili, in questo film l’ha trasformata in un sesso-dipendente compulsivo. E’ un’amicizia un po’ faticosa la vostra, non trova?MF: Io penso che Steve voglia vedermi nudo, ecco qual è la ragione (ride).
Il regista passa di lì, proprio in quel momento e lui gli grida: “Vero, Steve, che ti sei inventato tutto Shame per mettermi in imbarazzo?”.
BM: C’è una bellissima complicità tra voi due. Com’è lavorare gomito a gomito con McQueen?MF: Steve è la persona che mi ha portato al punto in cui sono. Dopo Hunger hanno cominciato ad arrivare i copioni. Io gli devo tutto e adoro lavorare con lui.
BM: Dopo aver fatto Jung crede di aver capito qualcosa in più della natura umana e di se stesso?MF: Non sono un appassionato di certi argomenti. Non mi sono preparato granché per il ruolo. Ho evitato i saggi e ho comprato una specie di bigino che mi ha molto aiutato: Jung per i bambini. Per il resto mi sono affidato al copione.
BM: Non ha bisogno di riposo adesso? Non sente il desiderio di scrollarsi di dosso tutti questi personaggi?MF: In effetti sì. Ho tirato tanto la corda e adesso ho bisogno di riposare. C’è stato un momento in Shame in cui ho capito che stavano per saltarmi i nervi. Uscivo da una serie di lavori, uno dietro l’altro, grandi progetti e agenda sempre piena di impegni… Ora devo fermarmi e rilassarmi un attimo.
BM: Potrebbe fare un giro in moto, come quello che ha fatto di recente con suo padre in Europa. Cosa le è piaciuto di più dell’Italia?MF: Ho appena sentito mio padre che sta per tornare a casa da quel giro iniziato insieme. Sono i suoi ultimi due giorni di viaggio e sono davvero molto emozionato. Dell’Italia mi è piaciuta Firenze, che vedevo per la prima volta e, ovviamente, Roma. Tutti quei palazzi così belli… E poi mi piacciono proprio gli italiani, quel senso dell’umorismo per cui, come noi irlandesi, ci si stuzzica sempre un po’ a vicenda. Ci sono molte persone attraenti e ovviamente la cucina… Mi piace anche molto come guidano le persone: fanno cose assurde per la strada, ma per cui ci vuole una bravura incredibile nella guida.
BM: Che cosa avrebbe fatto se non fosse diventato un attore?MF: A 17 anni ho provato a fare il chitarrista di una banda di heavy metal, ma poi è arrivato un chitarrista molto più bravo di me e così ho capito che non era quella la mia strada. Poi ho frequentato delle lezioni di recitazione e ho avuto un’illuminazione sul mio futuro.
BM: E’ migliorato il suo rapporto con la moda da quando va sui red carpet?MF: Lei cosa dice? Mi vede? Diciamo che adesso ho molti più vestiti e posso scegliere molto di più, ma mi piace il casual. Sul set, invece, è bello poter indossare certi abiti, come ad esempio quelli di Magneto, elegantissimi e vintage, soprattutto quando capisci che sono perfetti per quel personaggio.
BM: Qual è il film che non si stancherebbe mai di rivedere?MF: Il grande Lebowsi. L’ho visto talmente tante di quelle volte che saprei recitarlo a memoria e mi piacerebbe enormemente recitare un ruolo come quello. Adoro Jeff Bridges. Lo adoro dai tempi dei favolosi Baker e non ho mai smesso di amarlo fino a oggi che è diventato il Grinta. (Foto Luca Maragno)