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10/06/2022
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I finalisti di CineCi' - CortiCulturalClassic 2022 a Palma Campania vi aspetta la grande festa del cinema giovanea
07/06/2022
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17° Premio letterario internazionale NCC - Bando 2021/2022
23/11/2021
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Ornella Muti, la vera diva mancata del cinema italiano
08/08/2022
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25/07/2022
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20/07/2022
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Giuseppe D’Angelo: "Ho cercato sempre di studiare, sperimentare, approfondire e soprattutto coltivare le mie passioni, il teatro e la musica, che sono sempre state il leitmotiv della mia vita."
19/07/2022
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in cerca del vero cinema d'autore
Il buon cinema mondiale d'autore da non perdere e cercare nelle sale...sosteniamo il buon cinema..sosteniamo la cultura ....iniziamo con i primi tre film....chiedeteli e cercateli nelle sale di tutta Italia..
Sivas
Duro romanzo di deformazione che getta una luce sinistra sulla società turca: Müjdeci non fa sconti......
Giudizio:8
Dopo l’Anatolia benestante e colta di Winter Sleep, con cui Nuri Bilge Ceylan ha vinto la Palma d’oro dell’ultimo Festival di Cannes, ecco quella arcaica, povera e brutale di Sivas, lungometraggio d’esordio di Kaan Müjdeci. Intanto ha già incassato la dura contestazione di un gruppo di giornalisti turchi alla fine dell’anteprima stampa, irritati probabilmente dal durissimo spaccato che il film offre di una parte del paese.
Ambientato in un villaggio di pastori dell’Anatolia orientale, tra case dirupate, terre brulle e vallate mozzafiato, Sivas è un racconto di formazione incentrato su un bambino, Aslan, e del suo apprendistato all’età adulta, che solo una mente deviata potrebbe scambiare per maturazione.
Aslan, interpretato magnificamente dal piccolo Doğan İzci, è immerso in un ambiente aggressivo, dominato da uomini rabbiosi e dal loro cameratismo burbero e ostile, che Mujdeci, forte di un’esperienza documentaria, mette in scena con feroce immediatezza. Il regista tallona da vicino il bambino, inseguendone – camera in spalla – traiettorie e prospettive, con il movimento continuo e convulso della mdp che intercetta da un lato la frenesia tipica dell’età e dall’altra la tensione nervosa che caratterizza il contesto ambientale. Una concitazione – una confusione quasi – che finisce per imprimersi negli occhi di guarda. Interessante a riguardo l’incrocio di focali che Müjdeci ottiene facendo slittare di continuo il punto di vista dal bambino agli adulti agli animali coinvolti nella vicenda. Un tentativo di immedesimazione totale che sprofonda letteralmente lo spettatore nella narrazione e lo disorienta. Il film suscita in questo modo un vortice di emozioni contrastanti: ora tenerezza per il piccolo protagonista, ora costernazione per il comportamento degli adulti, ora compassione per il modo in cui vengono trattati cavalli e cani, ecc…
Così, la quasi totale assenza di donne nel film è certamente un dettaglio ambientale ma indica nello stesso tempo le radici maschiliste di ogni società violenta. Stessa cosa dicasi del linguaggio, turpe e aggressivo, di impressionante freschezza e veridicità, e insieme sintomo dell’imbarbarimento culturale cui vanno incontro i personaggi.
Le scene del combattimento tra cani (l’hobby più gettonato del posto) hanno fatto storcere il naso a qualcuno, ma ci si dimentica che quelle di White God di Kornél Mundruczò, fresco vincitore di Un Certain Regard a Cannes, erano di gran lunga più efferate. Probabilmente a renderle quasi insopportabili in Sivas è il fatto che fungono da detonatore di una inquietudine costante, che attraversa il film dall’inizio alla fine: dai giochi dove un buffetto ci scappa sempre alla violenza verbale, dai latrati dei cani alle urla degli uomini, dalla possessività che Aslan mostra verso una compagna di classe allo sguardo malandrino e fugace al seno di sua madre .
Senza perdere mai il suo approccio sociale, Sivas racconta così la fine dell’innocenza di un bambino con una tenuta nervosa e una potenza metaforica che lo rendono uno dei film più sporchi e meno concilianti di tutto il concorso.
Theeb
Racconto di umanità nel deserto - Giordania – emozioni e verità -
Giudizio: 7
È l’anno dei ragazzi. I bambini popolano i film ricordandoci quanto sia difficile e doloroso crescere. Non fa eccezione Theeb, il giovanissimo protagonista del film del regista giordano Naji Abu Nowar.
Siamo nel 1916, nel pieno del conflitto ottomano che ha reso la Giordania una terra di conquiste. Rimasto orfano del padre, Theeb ha nel fratello Hussein l’unico legame affettivo. Quando nel villaggio beduino dove vive arriva un soldato inglese che chiede di essere condotto proprio da Hussein all’interno del deserto arabico, il piccolo non ha altra scelta che seguirli per non perdere contatto con quel che resta della sua famiglia. Ma il deserto è pieno di pericoli, gli amici si trasformano in nemici, la paura in coraggio.
Il viaggio umano di Theeb, costretto ad abbandonare l’età infantile per essere catapultato in quella adulta. A impersonarlo Jacir Eid, che nella vita vera appartiene realmente a una comunità beduina come gli altri attori non professionisti di cui si è servito il regista. Una scelta che porta al film un sapore in più di realismo, come se non bastasse già la bellezza del paesaggio.
Curioso caso di opera prodotta e realizzata in partecipazione anche produttiva dei beduini del deserto, Theeb regala molte emozioni oltre a illuminare la situazione attuale di una terra circondata da paesi in guerra.
Loin des hommes
Opera solida, ambientata nell’Algeria del 1954. Con Viggo Mortensen
Giudizio:8
Ispirato a L’hôtel di Albert Camus, Loin des hommes è un western, che diventa film di guerra, ambientato nelle montagne dell’Atlante algerino nel 1954. Quando i contrasti tra Algeria e Francia esplosero sempre più sfociando nel lungo conflitto che portò alla fine della colonizzazione francese e all’indipendenza del popolo algerino. Ma David Oelhoffen, cineasta francese al secondo lungometraggio dopo l’esordio con Nos retrouvailles, sceglie un percorso originale per narrare episodi di quella guerra. Afferma egli stesso che appena lesse il racconto di Camus immaginò un western, ma “un western non convenzionale, immerso nella storia europea, sullo sfondo delle alture nordafricane”.
Il risultato è un’opera solida, attraversata da una traccia diegetica e formale rarefatta e contemporaneamente densa che non viene mai meno e che accompagna il viaggio in quei luoghi rocciosi, polverosi, assolati, sferzati dalla pioggia e dal vento, dei due protagonisti: l’insegnante Daru (Viggo Mortensen, i cui occhi, il cui volto sono ancora una volta dolce e energico spazio filmico da indagare), europeo nato e cresciuto in quelle zone, ex militare durante la seconda guerra mondiale in Italia, ora dedito alla missione di insegnare a leggere ai bambini di quel posto sperduto fra le montagne; e l’algerino Mohamed (Reda Kateb, tra i suoi film Il profeta e Zero Dark Thirty), in fuga dalla vendetta dei parenti dopo avere ucciso un cugino che rubava il grano alla sua famiglia e, pur di interrompere quella spirale di sangue, disposto a farsi consegnare ai francesi, che lo ucciderebbero.
Un personaggio sospeso tra due esecuzioni, come Daru è sospeso tra essere europeo o arabo. Oelhoffen accompagna, con il suo sguardo non giudicante ma accanto a quei due esseri umani che la Storia ha allontanato dagli uomini, Daru e Mohamed nel lungo cammino impervio che li porterà, obbligati nelle scelte, verso la separazione e un futuro accennato: il secondo verso gli accampamenti dei nomadi che, per loro tradizione, lo ospiteranno; il primo lontano dalla scuola e dai bambini, non più desiderato in un paese che ha sempre considerato suo.
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