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Elena Ferrante ... la scrittrice e il mistero
FENOMENO-FERRANTE - DELIRIO DELLA CRITICA AMERICANA PER LA SCRITTRICE ITALIANA SENZA VOLTO - A NOVEMBRE ESCE IL QUARTO LIBRO DEL CICLO “L’AMICA GENIALE” – UNA COSA E’ CERTA: E’ NAPOLETANA…
Nessuno l’ha mai vista, nessuno l’ha mai intervistata, nessuno l’ha mai incrociata per caso al supermercato. Non se ne ha nemmeno una foto giovanile, come dell’altro grande solitario Thomas Pynchon. Ma cosa si nasconde dietro il mistero di Elena Ferrante e il suo travolgente successo?...
Da “la Stampa”
Attesissimo dai fan (e soprattutto dalle fan), arriva a novembre in libreria per e/o il quarto libro del ciclo di Elena Ferrante L’amica geniale, intitolato Storia della bambina perduta. Il primo volume è del 2011, seguito nel 2012 da Storia del nuovo cognome e nel 2013 da Storia di chi fugge e di chi resta.
Le protagoniste di questa saga di amicizia, amore e rivalità sono due napoletane, Elena Greco, detta Lenù, e Raffaella Cerullo, detta Lila, bambine di feroce intelligenza nella Napoli maschilista e violenta degli Anni 50, poi ragazze e donne affamate di vita, di amore e di cultura, lungo due strade diverse ma mai perdendosi di vista: Lenù, la più diligente, verso l’emancipazione, le scuole superiori, la Normale di Pisa, i libri, il matrimonio con un uomo colto, la fuga dal rione. Lila, la più geniale, sposa bambina a un piccolo camorrista, poi fuggita di casa ma rimasta a Napoli, diventata operaia e piena di passione politica.
Paolo Di Paolo per “la Stampa”
C’è sempre qualcosa di misterioso nella fortuna critica di un autore all’estero. Gli ostacoli sono tanti: la complessità stilistica, la traducibilità di un immaginario, di un orizzonte storico e culturale. A Elena Ferrante, la misteriosa autrice di L’amore molesto, è accaduto il miracolo che accade a pochissimi autori italiani: essere scoperta e celebrata in America.
Sul mercato anglofono siamo di solito debolissimi, e semmai ci pensano gli americani stessi a spargere – quando serve – un po’ di italianità caricaturale sui loro romanzi (è il caso di Mangia prega ama di Elizabeth Gilbert, per esempio, o del Dan Brown in salsa vaticana). A entrare nel dibattito culturale sono riusciti forse solo Calvino e Umberto Eco (l’ultimo romanzo di Jeffrey Eugenides, La trama del matrimonio, chiama in causa il nostro professore già nelle prime pagine); se la sono cavata la Fallaci, Calasso, e più di recente Severgnini, Baricco e Saviano. Il nobile lavoro di Jonathan Galassi su Montale e poi su Leopardi fa eccezione.
IL MISTERO DI ELENA FERRANTE
Merita perciò di essere studiato il fenomeno-Ferrante: un’autrice di cui tuttora si ignora l’identità salutata qualche settimana fa dal New Yorker come una grande artista. Molly Fischer dice di aver cominciato a leggere il primo volume della trilogia L’amica geniale e di non essere riuscita più a fermarsi. Richiamandosi ad alcune serie tv che mettono in scena l’amicizia femminile, Fischer spiega come l’abilità di Ferrante sia stata quella di raccontare un rapporto fra donne nel corso degli anni, la sua evoluzione nel tempo.
Ancora sulle colonne del New Yorker, a inizio 2013, il critico James Wood parlava, a proposito di I giorni dell’abbandono, di «literary excitement». La traduttrice di Ferrante, Ann Goldstein, elogia la pagina della scrittrice napoletana come intensa, puntando il dito contro il resto della prosa letteraria italiana, che sarebbe «flowery», infiorettata e troppo elaborata.
Sarà. C’è qualcosa che non torna; qualcosa, diciamolo pure, di sproporzionato. Ai lettori e critici americani i romanzi di Ferrante piacciono perché le trame sono oliate, la mano narrativa è solida, la lingua piana, e Napoli, quando c’è, è un fondale che non impegna troppo, sta lì come una stampa turistica con Vesuvio e golfo. Si fa leggere con partecipazione emotiva, le sue vicende sono traghettabili ovunque: una separazione dolorosa nei Giorni dell’abbandono; una scrittrice di successo, che guarda caso si chiama Elena e con un romanzo «osceno» irrita il piccolo mondo da cui proviene, nella Storia di chi fugge e di chi resta. È dunque «universale» Elena Ferrante?
Al cinema, da noi, l’hanno portata Martone e Faenza; i letterati italiani anche più sofisticati ed esigenti (Fofi, Guglielmi) l’hanno omaggiata, ma non prenderebbero in considerazione con la stessa serietà romanzi di autrici non così dissimili da Ferrante, per tematiche e stile, come Cristina Comencini, Simonetta Agnello Hornby o Sveva Casati Modignani. Vai a capire perché.
Se fosse un’altra autrice – una che, per usare un’espressione corrente, «ci mette la faccia» – sarebbero più severi i nostri professori: le perdonerebbero, per esempio, un indice dei personaggi come quello che apre Storia di chi fugge? Ha tutta l’aria del riassunto di una soap tipo Un posto al sole. Le perdonerebbero frasi come «mi aveva smosso la carne senza smuovere la sua, brutto stronzo».
Se le scrive la Mazzantini non vanno bene; se le scrive la Ferrante sì. Ma la forza di Ferrante è, più che nei suoi libri, nel suo non esserci, la sua distanza abissale da tutto: nessuno l’ha mai vista, nessuno l’ha mai intervistata di persona, nessuno l’ha mai incrociata per caso, come perfino al vecchio eremita Salinger era accaduto al supermercato. Non se ne ha nemmeno una foto giovanile, come dell’altro grande solitario Thomas Pynchon.
Sono abbastanza patetici, perciò, i dialoghi con giornalisti e critici raccolti nel 2003 nel volume La frantumaglia: gli intervistatori mandano le domande alla casa editrice e/o e poi arrivano, da chissà dove, le risposte. Pensose, con tanto di pose e civetterie di chi si concede con il contagocce e finisce per essere più irritante dei peggiori narcisi. È un libro pieno di salamelecchi, di abbracci, di finte confessioni: un corpo a corpo impossibile con la Grande Assente della letteratura italiana.
La «morte dell’autore» di cui tanto aridamente si discuteva in quel ’68 caro alla Ferrante, è diventata questo nome e cognome così allusivi da sembrare finti. Elsa Morante, Elena Ferrante; Napoli, la Grecia: no, non mi convince. E che a scrivere questi romanzi sia Domenico Starnone o Anita Raja importa fino a un certo punto: sarebbe di per sé molto triste e imbarazzante dover scoprire, fra anni, le verità di un teatrino troppo furbo.
Qualcuno obietterà che il gioco degli pseudonimi in letteratura è lecito. Sì, ma è raro che stia in piedi per più di vent’anni. E comunque, in quanto gioco, è infinitamente meno interessante di una vita, di una faccia, di un’esperienza reale. Si può restare appartati senza diventare fantasmi. Così la letteratura somiglia a un software che produce storie, o al canovaccio di una impeccabile ma algida serie tv. Così, la letteratura italiana – in America e non solo là – rischia di restare senza volto.
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