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Art . 7 Il Verbale di Giuria, a carattere provvisorio, presenterà ex aequo i primi tre classificati di ogni sezione ; le loro opere a concorso saranno pubblicate sul sito www.culturalclassic.it per quindici giorni, per ricevere preferenze da parte dei visitatori. Le preferenze ricevute saranno valutate unitamente ai voti espressi dalla Giuria al fine di decretare i vincitori nel successivo Verbale definitivo. La Giuria si riserva il diritto sulla decisione finale.
16 MARZO 2018 PREFERENZE ESPRESSE 54
Trentatré giorni
Era proprio là, seduto sull'ultima panchina del parco, lo trovai subito. Un'ombra gli oscurava il sorriso, gli occhi cerchiati, le spalle ricurve, la sua immagine protesa verso la sera, appesantito da un tramonto che gli gridava dentro i suoi insoluti. L'autunno aveva cominciato a confondersi col gelo dell'inverno, un vento fastidioso s'insinuava tra la fodera del paltò di lana, perquisiva ogni bottone, cercava di smorzare anche l'ultima luce che gli brillava nel cuore. Era da un po' che mi aspettava, eppure fece in modo di mettermi a mio agio, abbracciandomi e poi risedendosi appoggiando i gomiti sopra le ginocchia. Erano passati due anni dall'ultima volta che l'avevo visto, poi la sua chiamata inaspettata, urgente, colma di una tristezza che trapelava dalle sue parole consumate e impacciate; aveva semplicemente chiesto la possibilità di parlare con me. Ero molto incuriosita, seppur titubante, o forse solo avvolta da una speranza ormai sepolta, così su due piedi, cancellai in un istante tutto il dolore, tutta la rabbia, pesino i ricordi amari e gli dissi “si”, un si carico di un'attesa antica, dimenticata e gelata, eppure ancora estremamente viva e tutta mia.
Sembrava invecchiato di un decennio, spigoli nuovi sul volto, ossa ricoperte da un velo di pelle, pronto a rompersi in un istante. Indossava l'eleganza di sempre, un metro e ottanta di bellezza, giacca e pantaloni color fumo di Londra, camicia azzurra e sopra il cappotto nero, un foulard bianco gli incorniciava il collo. Aveva una compostezza quasi rassegnata, una dignità nuova nel suo prendermi la mano, soffice, sottile e leggera come una nuvola. "Avevo bisogno di vederti ancora una volta" disse, mentre una lacrima cerulea gli tremava nello sguardo, ed io ebbi paura.
La sua voce era delicata e un po' incrinata.
Il vento scuoteva i pruni del parco. Una mamma rimproverava il figlio perché tirava su col naso e invece di tornare a casa voleva ancora giocare.
Gli dissi che era meglio andare in un bar lì vicino, il caffè della Pina era proprio buono, incominciava a fare davvero troppo freddo. Mi prese sottobraccio e ci avviammo lungo i vialetti cosparsi di ghiaia bianca. Il nostro passo veloce era simile a quello di anni fa.
Passeggiando al suo fianco mi sono sentita rimpicciolire, come se stesse per mettermi in una tasca e portarmi via con sé. Il viale sembrava allungarsi, zufoli d'aria disegnavano i tratti della sera in questo strano, incerto e quasi minaccioso crepuscolo, nel quale lentamente ci stavamo inoltrando. Per un attimo tutto il tempo passato aleggiava tra i nostri pensieri, quasi a fondersi in un'unica mente. Le mani si stavano cercando per sostenere insieme la fatica di un ricordo, o forse, il cruccio di un rimorso. Mi chiedevo tra me e me se i battiti dei nostri cuori sospirassero ancora all’unisono, almeno in quel preciso istante.
Quasi per incanto mi sono ritrovata a cinque anni prima, quando lui suonava il campanello di casa mia la sera, tardi. Il nostro incontro è stato casuale, forse banale come tanti altri, ero come un puntino perso in una lunga fila d’attesa per entrare nella Basilica di San Marco, persa nei miei pensieri per l’imminente esame di laurea che dovevo sostenere, quando gli pestai un piede.
Mi voltai di scatto con una faccia piena di espressioni di scusa, ma lui mi fece un largo sorriso e disse ridendo: "Signorina, per sdebitarsi le offro un caffè!” Rimasi sbigottita e non afferrai la battuta al primo colpo. Fu così che c’incontrammo, avevo ventisette anni, lui più grande di me di venti.
Tutta la mia sembianza, dalla mano tremante e imbarazzata, ai jeans scoloriti, alle scarpe da tennis slacciate, strideva inesorabilmente con il suo aspetto impeccabile, dalla giacca e cravatta alle scarpe.
Lui Marco, io Anna, proprio come la canzone di Lucio Dalla, anche se per noi non è andata proprio così. Faceva il dirigente in una grande azienda di Milano, tuttavia per motivi di lavoro si spostava spesso tra le varie filiali sparse nel Nord d’Italia e quel giorno stava proprio lì, a Venezia, città nella quale studiavo e che amavo follemente.
M'invitò a cena la sera stessa ed io rapita dal suo sguardo, accettai. Marco era sposato, me lo disse subito, non aveva figli ed era insoddisfatto del suo matrimonio, la moglie soffriva di crisi depressive e aveva tentato il suicidio più di una volta. Vivevano in casa con la madre di lei, così lui poteva permettersi di adempiere le esigenze aziendali e di viaggiare per lavoro. Rimase a Mestre per cinque giorni, ci vedemmo a Venezia tutte le sere. Aveva un sorriso che apriva la porta del mio cuore, m’innamorai subito, mi sembrava di conoscerlo da sempre, percepivo la sensazione di averlo amato in tante altre vite precedenti, o giù di lì, in definitiva mi sentivo felicemente persa da quest'uomo misterioso, elegante e dal riso scanzonato. Gli parlai di me, dell’imminente laurea in Conservazioni dei Beni Artistici e Storia delle Arti, dei miei progetti. Spesso rimanevamo in silenzio a osservare lo scorrere dell’acqua scura tra i canali, il passeggiare mesto dei turisti.
C’incontravamo una volta ogni due mesi. Quando era in servizio a Bologna, lo raggiungevo io. Ora che ci penso, la nostra storia di tre anni si può raggruppare tutta in circa trentatré giorni, il tempo rimanente si srotolava tra telefonate, messaggi e attese, lunghe, dolci tappe intrise di speranze pennellate dal cremisi di un amore grande, coronato da una passione indicibile.
Poi di colpo, così com'era apparso, sparì dalla mia vita. Era stata una fuga o un abbandono? Provai a mettermi in contatto con lui, ma il telefono emetteva uno stridulo suono metallico, finché non ripose un'anomia segreteria: “Il numero chiamato è inesistente." Dopo circa due mesi scartai l’ipotesi di farmi mille domande sul perché, rifiutai di pensare a lui, all’amore e a tutte le stupidaggini che porta con sé, mi buttai a capofitto sul lavoro, facevo la commessa in una libreria e mi ero iscritta a vari corsi serali che spaziavano dalla letteratura all’esoterismo. Mi asciugava il cuore Milena, una mia amica, avevamo stipulato una sorta di contratto, un diverso modus vivendi per sopravvivere al mal d’amore. Consisteva nell'aprire le ferite del cuore per due ore ogni mese. Sembra assurdo, lo so, ma così mi sembrava di soffrire meno, come se pensando a comando e buttando fuori la sofferenza a grandi dosi e in pochi momenti, l’anima si consumasse di meno.
Svolgevo la mia vita come un fantasma, finché la notte mi arrendevo esausta al sonno.
Tutto questo per tre anni filati, fino alla telefonata di due giorni fa.
Ci sedemmo nel Bar di Pina, Marco mi prese le mani tra le sue, disse che mi doveva delle spiegazioni, che il suo modo di sparire non era stato dignitoso e che non aveva trovato la forza di dirmi addio perché anche lui mi amava.
Ma come? Non capivo proprio. Sbigottita e arrabbiata stavo per alzarmi e andarmene quando disse: “Per favore, resta, non ho ancora finito.” Mi raccontò che Roberta, la moglie, aveva tentato il suicidio un’altra volta quando sua madre morì improvvisamente per un arresto cardiaco. Di conseguenza l’incombenza di accudirla era affidata completamente a lui. Non aveva mai avuto cuore di metterla in una clinica specializzata, preferiva rimanesse nella sua casa, dove aveva tutte le sue cose e forse il ricordo di qualche bel momento sereno. La moglie era entrata in depressione dopo aver perso nei primi tre mesi di gravidanza un bambino, un aborto spontaneo, come succede ad altre donne, ma lei non era più guarita da quell'ineluttabile lutto. E ora, era stato costretto a ricoverarla in una casa di cura.
Non capivo, non ci capivo proprio niente di tutta questa storia, mi sembrava una parodia. Rimanevo stretta stretta al mio silenzio perché aspettavo che la finestra di una qualche parola luminosa illuminasse la mia mente. A un certo punto Marco deglutì, mi guardò dritto negli occhi e mentre dentro tremavo, con un filo di voce sussurrò: "Anna, ho una malattia incurabile, un cancro ai polmoni. Non c’è via di scampo, non è operabile."
Un sospiro morì all’improvviso in gola e anche una parte di me. Marco era venuto da me per morire.
Gli dissi di rimanere. Lo portai a casa mia, ignara di tutto quello che mi aspettava.
Agii d’impulso, così, di cuore senza ragione e senza logica. Lo amavo, lo avevo sempre amato.
Compresi che quando ami una persona che sta aspettando la morte per una malattia incurabile, l’ondeggiamento della vita va a pezzi e che il tempo s’inchioda quando qualcuno sta per andarsene.
Il giorno e la notte si alternano comunque e mentre tutto si ferma per chi muore, per chi resta rimane tutto il tempo d’impazzire. La morte straccia i fogli del calendario, non pensa all’alta marea della laguna, né ai giorni che passano più lenti o più veloci. La cosa brutta è che quando poi si torna alla vita di tutti i giorni, tutto sembra un’enorme bugia, il vivere e il suo senso e non senso.
Troppo veloce è stato lo scorre di quel che rimaneva della sua vita, perché mi accorgevo che il tempo non era mai abbastanza per un ti voglio bene, una carezza, un ti amo, per un “aspetta un attimo amore, non ti muovere, ti devo ancora… dire.” Quando la morte é nei dintorni uno s’immagina che arrivi di notte, e invece viene di giorno. Ogni minuto che passa, se ci si pensa fino in fondo, è un piccolo addio.
A volte le notti erano interminabili perché mi svegliavo a ogni minimo colpo di tosse.
In silenzio ascoltavo se respirava ancora, mentre l’angoscia mi attanagliava il cuore.
Quando accadde, fu straziante, scese un silenzio terribile che durò a lungo.
Sono passati sette anni dalla sua morte, mi manca il suo sorriso, persino il rantolo del suo respiro. Lui è scomparso, svanito. La mente fatica a trattenere la sua immagine e il suono della voce non lo ricordo più. Penso che, solo chi sa quanto possa mancare una persona, comprenda come si possa credere ai fantasmi e alle sedute spiritiche per evocarne l'anima.
Se solo potesse dirmi qualche parola ancora… basterebbe un valzer di pensieri.
La frescura dell’autunno veneziano mi avvolge. La scor
ribanda dei colombi mi fa compagnia.
Vedo ancora il bagliore del sole sfiorare il suo volto.
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