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Gerda Taro sirena coraggiosa. Il romanzo vincitore del Premio Strega 2018
Gerda Taro, il coraggio di una donna ai tempi della guerra
È il 26 luglio 1937. Una donna giace stesa sul letto di un ospedale improvvisato di Madrid, immobile. Le mani incrociate sul ventre, un camice immacolato la avvolge. Sembra quasi che stia dormendo. Ma i rivoli di sangue che le scendono dalle narici e dalla bocca raggelano l’aria nella stanza, sotto il peso della verità: quella donna è morta. Quella donna è Gerda Taro.
Accanto a lei c’è un medico, chino sul suo letto. Con un gesto delicato e amorevole, quasi come un padre, pulisce il viso da quel sangue versato troppo presto. A soli 26 anni Gerda muore, dopo aver vissuto con intensità ogni singolo momento della sua breve vita. La sua fine non poteva certo essere diversa: intensa, dirompente e imprevedibile, esattamente come lei.
Una fotografia ritrae i suoi ultimi istanti, proprio mentre quel medico si prende cura del corpo ormai esanime.
Per qualche strano gioco del destino, questo scatto è venuto alla luce solo 80 anni dopo la sua morte.
Il dottore ritratto nell’immagine viene improvvisamente a mancare, e il figlio riceve la fotografia in eredità, riportandola alla luce solo dopo diversi decenni.
Una strana coincidenza, un mix di oblio e memoria ritrovata che lega questa donna alle incredibili vicende della valigia messicana. Sembra che questo sia il destino di Gerda e delle sue fotografie: perdersi, per poi ricomparire molti anni dopo a migliaia di chilometri di distanza.
Gerda Taro è la prima fotoreporter donna ad aver perso la vita in guerra. Sempre in prima linea, la macchina fotografica pronta a scattare a raffica. Ma lei è molto più di questo.
Una donna irriverente, sfrontata e bella da morire. I suoi capelli corti e sbarazzini le valgono il soprannome di “biondina di Brunete” (un comune dell’entroterra Spagnolo, teatro di una cruenta battaglia nel luglio del 1937, in piena guerra civile).
Gerda Taro non è una donna comune. È nata libera lei, e niente e nessuno riuscirà mai a imprigionarla, nemmeno quando in carcere ci finirà per davvero. Una donna fedele a se stessa e ai suoi ideali, in un’epoca in cui far sentire la propria voce risuona come un terribile delitto.
Gerda nasce a Stoccarda nel 1910 da una famiglia ebraica di origini galiziane; il suo vero nome è Gerta Pohorylle. Ribelle e rivoluzionaria, non sopporta le ingiustizie e le oppressioni.
A 23 anni si fa arrestare con l’accusa di aver distribuito volantini antinazisti a Lipsia, e diventa l’idolo delle sue compagne di cella: canta canzoni americane e smercia le sigarette che il padre riesce a farle avere di nascosto.
Nello stesso anno, il 1933, Hitler diventa cancelliere e la giovane decide di lasciare la Germania una volta uscita di prigione.
Si trasferisce a Parigi, dove si inventa una nuova vita e cambia il suo nome in Gerda Taro. Lì, fra i tavoli dei café parisiens, incontrerà l’unico uomo che sarà capace di tenerle testa.
“Gerda, ridendo, gli arruffa la testa: «Cosa vuoi dalla mia vita, André?»
«Non so. Giura che ci credi».”
La ragazza con la Leica, 2017, Helena Janeczek
Prima di Gerda non esiste nessun Robert Capa. C’è solo André Friedmann, un giovane fotografo ungherese, anche lui di origini ebraiche, anche lui con una valigia piena di sogni.
I due si innamorano, è inevitabile. Si completano al punto di scoprirsi due metà della stessa persona. La ragazza lavora per un’agenzia di immagine di Parigi, e con l’aiuto di Robert si perfeziona nell’arte della fotografia. Dopo poco inizia a collaborare con lui.
Nonostante la fuga dalla Germania, l’ombra dell’antisemitismo incombe alle spalle di entrambi. I nomi tradiscono le loro origini ebraiche e le grandi riviste dell’epoca non sono disposte a ingaggiarli. Gerda non è una che si arrende di fronte alle difficoltà, e lo dimostra con un’intuizione: inventarsi degli pseudonimi.
Non c’è più spazio per Gerta Pohorylle e André Friedmann. Ora il palcoscenico è tutto di Gerda Taro e Robert Capa.
La ragazza si inventa una storia: un famoso fotografo americano, noto appunto come Robert Capa, si trova temporaneamente in Europa per alcune collaborazioni.
Nel giro di pochissimo tempo le maggiori testate dell’epoca lottano per contendersi i suoi scatti, e la fama di Capa cresce a dismisura. Nessuno sa che dietro a questo nome altisonante si nascondono gli scatti di Friedmann e la mente di Gerda.
La Guerra Civile spagnola è il teatro che consacra Robert Capa come il più famoso fotografo di guerra di tutti i tempi. Il contributo della Taro, invece, non viene altrettanto riconosciuto.
Entrambi si ritrovano al fronte perché convinti sostenitori della causa spagnola. Si considerano cittadini del mondo e sono disposti a rischiare la vita per documentare gli eventi attraverso i loro scatti.
Sono sempre in prima linea al fianco dei miliziani, lottano e soffrono con loro. C’è chi giura di aver visto Gerda sul campo di battaglia indossare scarpe con il tacco, gridando e incitando i soldati a serrare le linee.
Si trascina i cavalletti e le fotocamere per chilometri, incurante del pericolo.
Diventa l’esempio concreto di una delle più celebri frasi pronunciate dal suo compagno, che si trasformerà negli anni nel motto simbolo di ogni fotoreporter: “Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino”.
Gerda Taro, maggio 1937. Due soldati trasportano un ferito in barella al Passo di Navacerrada. Questo scatto ha ispirato Hemingway per la stesura del romanzo “Per chi suona la campana”.
Gerda scatta centinaia di fotografie, forse migliaia, ma vengono tutte pubblicate e firmate da Capa.
E così, mentre lui diventa qualcuno, lei sprofonda nell’ombra. Dopo una vita passata a lottare contro i pregiudizi, le etichette e le disparità sociali, ora i suoi meriti vengono oscurati proprio dal compagno.
Di lì a poco rifiuta la proposta di matrimonio di Robert e sceglie di proseguire la sua carriera da sola. Inizia a lavorare per Ce Soir, una rivista di sinistra, e conosce personalità del calibro di Ernest Hemingway e George Orwell.
Fonda una sua etichetta, la Photo Taro, e pubblica i propri scatti su alcune importanti testate dell’epoca come Life, Volks Illustriert e Regards.
Il suo nome comincia finalmente a essere riconosciuto a livello internazionale. Nel 1937, infatti, le sue foto attirano l’attenzione della stampa mondiale, proprio mentre lei si trova a Brunete per documentare gli scontri al fronte spagnolo come inviata di Ce Soir.
Nessuno poteva immaginare che quello sarebbe stato il suo ultimo reportage.
Gerda Taro, marzo 1937. Un soldato spagnolo appende un cartello contenente un messaggio rivolto ai compagni dell’esercito, per motivarli nell’affrontare il nemico.
La morte di Gerda Taro
Questo ci riporta all’inizio della nostra storia. In quell’ospedale di Madrid, dove Gerda giace sanguinante su un lettino.
I tedeschi hanno bombardato il convoglio sul quale viaggiava la ragazza, di ritorno dal fronte di Brunete. Lo schianto la fa finire a terra, dove viene investita da un carro armato che la schiaccia sotto i suoi cingoli.
Si racconta che, anche in quel momento, Gerda non pensi affatto alla morte: vuole solo sapere se i rullini e la macchina fotografica siano al sicuro.
Al suo funerale partecipano più di 100.000 persone, Pablo Neruda legge l’elogio funebre e in sottofondo suona la marcia di Chopin. Capa è completamente devastato dalla morte della compagna, e non si riprenderà mai del tutto.
Eppure, nemmeno un anno dopo, in pochi sembrano ricordarsi di lei e del suo contributo al mondo della fotografia. È come se la sua intera esistenza fosse ricoperta dal velo dell’indifferenza e dell’oblio.
L’eredità di Gerda Taro
La storia più contemporanea ha ridato finalmente voce a questa donna, il cui nome è tornato a risuonare potente nelle orecchie di mezzo mondo. Libri, canzoni, mostre fotografiche a lei dedicate raccontano oggi la sua storia alle nuove generazioni.
“Aveva dedicato la sua splendida vita a un degno compito, a una giusta causa persa”. In queste parole della scrittrice italo-tedesca Helena Janeczek c’è tutta l’essenza di una piccola biondina dal carattere di ferro.
Nel suo libro “La ragazza con la Leica”, l’autrice racconta la storia della Taro attraverso le parole e i ricordi di chi l’ha conosciuta per davvero.
Gerda diventa un modello per le donne contemporanee. Il suo carattere forte e la sua determinazione l’hanno spinta a rivoluzionare la propria vita, plasmandola secondo i propri ideali.
Poco importa se ha dovuto lottare contro i pregiudizi dell’epoca per conquistare il suo posto nel mondo e gridare che lei valeva con tutto il fiato che aveva in corpo. Alla fine, ha vinto lei. Il ricordo è vivo ancora oggi, la sua vita fonte di ispirazione per moltissime donne che tuttora vivono le stesse difficoltà.
Non ha mai avuto paura di mostrare al mondo chi fosse davvero, a costo di rimetterci la propria vita. È sempre stata libera, anche durante una guerra che ha incatenato e ucciso migliaia di persone. Lei compresa. Ha scelto consapevolmente di partire per il fronte, e non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte.
I suoi scatti ti catapultano indietro nel tempo e raccontano il conflitto anche a chi non l’ha vissuto in prima persona. Dalla pellicola traspare tutto il coraggio, lo sgomento, la fatica, la sofferenza e la morte che la Taro ha saputo cogliere e fissare nella memoria di tutti noi.
Gerda Taro, marzo 1937. Ritratto di una vittima di un raid aereo a Valencia.
La biondina di Brunete ha fatto della sua breve vita un capolavoro. Cocciuta, elegante, sfrontata e ribelle fino alla fine.
“Credi che un caporedattore sappia distinguere la semplice bontà di un’immagine? Raramente. La fotografia è fatta di nulla, inflazionata, merce che scade ogni giorno. Si tratta di saperla vendere.” Parola di Gerda Taro.
HELENA JANECZEK, LA RAGAZZA CON LA LEICA (GUANDA, PP 333, EURO 18). L'energia, la gioia di vivere, il coraggio, il desiderio di libertà e indipendenza, la bellezza e il fascino irresistibile di Gerda Taro, la prima fotoreporter morta sul campo di battaglia a 26 anni, durante la guerra civile spagnola, amata da Robert Capa, tornano a vivere ne 'La ragazza con la Leica' (Guanda) con cui Helena Janeczek ha vinto il Premio Strega 2018.
Non è una biografia, è una storia corale, accompagnata anche da alcune fotografie, basata su un'ampia documentazione e ricerca durata quasi 6 anni. La Janeczek, nata a Monaco di Baviera da famiglia di origini ebreo-polacche, che vive in Italia da oltre trent'anni, ci fa entrare nel cuore di quei ragazzi degli anni Trenta alle prese con la crisi economica, l'ascesa del nazismo e l'ostilità verso i rifugiati. Un periodo che, in un certo senso, può far da specchio ai nostri tempi attraverso la figura di una donna al di là di ogni stereotipo, morta nel 1937. Nel romanzo, che inizialmente doveva essere un racconto, tre personaggi raccontano la Taro: sono due ex fidanzati della fotografa, il cardiologo Willy Chardack e Georg Kuritzkes, che combatte nelle Brigate Internazionali e poi l'amica del cuore Ruth con cui ha vissuto tempi duri a Parigi. Nel prologo ed epilogo dialogano con alcune foto fatte a Robert Capa e Gerda Taro a cui il famoso fotografo insegnò ad usare la Leica.
Gerda è raccontata da donna già morta e tutto parte da una telefonata tra Willy e Georg a cui torna in mente la Spagna di Robert Capa con cui aveva "un'amica in comune, Gerda Taro, che nessuno oggi sa più chi era".
La Janeczek da voce al fascino e alla figura della Taro come se fossero visti dall'esterno e si interroga su come l'intenso e breve amore e sodalizio professionale tra lei e Capa sia stato percepito. L'autrice immagina le prospettive, mentre i personaggi e i fatti più importanti sono veri e documentati. Ed è proprio questo sguardo nuovo a creare un linguaggio e una linea narrativa tutta della Janeczek. Come si capisce bene anche nell'epilogo dove è riportata una foto di Taro e Capa: "Guardali infine sulla terrazza del Cafè du Dome con quei sorrisi che si parlano, l'allegria sprigionata da una gentilezza o stupidaggine qualsiasi, a loro due basta una cosa da niente".
Autrice di poesie a 26 anni, e di quattro romanzi tra cui 'Le rondini di Montecassino' (Guanda), vincitore tra gli altri del Premio Sandro Onofri e finalista al Comisso, la Janeczek, a 80 anni dalla scomparsa della Taro ripercorre una vita esemplare in cui restituisce lo sguardo della fotografa finita sotto i cingoli di un tank amico durante un'improvvisa ritirata sul campo di battaglia, in Spagna, attraverso gli occhi di amici testimoni e di chi la ha amata. "Ho cercato di usare lo sguardo dell'attrazione e, in una rifrazione a specchio, di far emergere qualcosa che resiste agli sguardi. Gerda Taro era seduttiva ma non adescatrice, però le piaceva giocare. Non è stato facile restituire il suo fascino che viene fuori attraverso gli occhi degli altri. Non solo una moderna sirena ma guerriera e coraggiosa" come dice la scrittrice.
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