"Quanto accaduto il 24 mattina ad "Alice nella città" è gravissimo.
Un gruppo di studenti, accompagnati alla proiezione del film Il Ragazzo Dai Pantaloni Rosa, ha pensato male di disturbarne la visione, lanciando dalle poltrone su cui si erano accomodati parole pesanti come macigni.
*Froxio, *Ma quando s'ammaxxa, *Gay di mxxxa sono solo alcuni degli insulti rivolti a mio figlio. Ancora oggi, 12 anni dopo. Ancora oggi, anche se morto". Inizia così l'amaro post di Teresa Manes, la mamma di Andrea Spezzacatena che, vittima di bullismo e cyberbullismo, nel 2012 si tolse la vita a 15 anni.
La Manes, mi piacerebbe che chi continua a negare l'omofobia in questo Paese prendesse spunto da quanto accaduto per rivedere il proprio pensiero e regolare il proprio agito. Perché la parola non è un concetto vuoto. La parola è viva ed uccide. Io, di certo, non mi piego.
Anzi, continuerò più forte di prima Mio figlio non c'è più ma l'omofobia a quanto pare sì".
In precedenza la Manes racconta anche che le è stato chiesto quanta rabbia le facesse tutto questo. "Quegli insulti erano sorretti dall'impalcatura della indifferenza che è la forma più subdola della violenza. Io non so se dietro quel gruppo rumoroso c'è l'assenza di quella educazione primaria che spetta alla famiglia. Il bisogno di affiliazione e, dunque, la necessità di fare parte di un gruppo può portare, specie in età adolescenziale, a fare o a dire cose che un genitore magari manco immaginerebbe mai dal proprio figlio. Ma in quel contesto, anch'esso educativo, chi ha fallito è stato quell'adulto, incapace di gestire la situazione e rimettere ordine, probabilmente non avendo avuto tempo o voglia di preparare la platea dei partecipanti. venendo, comunque, meno all'esercizio del ruolo che ricopre".
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