Matteo ci racconti di Lei, chi è Matteo Damiani come persona?
Vivo a Roma, ma sono originario di Urbino. Ho studiato alla Scuola Civica di Cinema di Milano, per poi spostarmi a Roma dove ho iniziato a lavorare sul set. Contemporaneamente ho portato avanti i miei progetti, inizialmente come documentarista.
Come nasce la sua passione per il cinema?
L’amore per il cinema nasce dalla passione nel raccontare storie; una passione che è iniziata con la scrittura, e poi è proseguita con la volontà di iniziare a costruire storie per immagini. Del cinema ho sempre amato il silenzio e il buio della sala, quella sua capacità di fermare il tempo che permette allo spettatore di sprofondare per qualche ora in un’altra storia, in un’altra vita, e dimenticarsi della propria. Ascoltare storie e raccontare storie è il più grande piacere che ci concediamo. Siamo sempre alla ricerca di storie, siamo animali narrativi.
Come si passa da regista a sceneggiatore?
È più frequente il passaggio inverso. Solitamente si inizia dalla scrittura, e poi si inizia a ragionare su come portare sullo schermo la propria storia. Ma non tutti gli sceneggiatori vogliono essere registi, e non tutti i registi sono sceneggiatori. Sono, in fondo, due mestieri che richiedono anche un approccio al lavoro molto diverso. Per quello che mi riguarda, la fase della scrittura è una fase creativa impareggiabile.
Ci parli del suo cortometraggio “L’ultima festa”, in concorso al festival CineCi’ CortiCulturalClassic 2025 .
“L’ultima festa” è un cortometraggio che nasce dall’intenzione di raccontare le vite silenziose e dimenticate. Vite che sembrano non aver più nulla da dire, vite che sembrano venire da un altro tempo, da un contesto culturale totalmente differente dal nostro. Le protagoniste, Celeste e Teresa, sono due sopravvissute, si potrebbe dire le ultime testimoni di un altro mondo, in cui era difficile esprimere le proprie emozioni. Si ritrovano dopo tanti anni e, pur non riuscendo a comunicare apertamente, trovano il modo di dare una nuova vita al loro rapporto. “L’ultima festa” vuole raccontare le vite di chi, seduto su una sedia di plastica ad una sagra di paese, pensa di non avere più occasioni; è un on the road a piedi che segue passo passo le due protagoniste e condivide con loro il ritmo di una vita diversa, lontana dalla nostra quotidianità frenetica e iperattiva. Il cortometraggio è interamente girato nelle Marche, a Fiorenzuola di Focara, nella provincia di Pesaro e Urbino.
Lei ha debuttato giovanissimo e con autori del calibro di Roberto Faenza, Andrej Konchalovskij, Matteo Rovere e tanti altri . Collaborazioni importanti, cosa ricorda di quel periodo..
Lavorare con questi registi è stato ovviamente un percorso molto formativo. L’esperienza sul set come assistente alla regia o aiuto regista è un passaggio fondamentale, anche per comprendere come si lega l’aspetto creativo con quello produttivo.
Quali sono i registi dai quali si sente maggiormente influenzato o da cui trae ispirazione?
Ogni storia e ogni personaggio richiedono un differente approccio. Non ho un modello unico a cui ispirarmi, ma più che altro condivido un modo di intendere il lavoro sulle “storie” e il lavoro sul set che è quello di autori come i fratelli Dardenne, John Cassavetes, Abdellatif Kechiche. Per la loro forte idea di cinema, sicuramente anche registi come Lars Von Trier e Derek Cianfrance. Ma voglio citare anche alcuni autori italiani contemporanei, capaci di costruire grandi storie, come Roberto De Paolis, Enrico Maria Artale, Bonifacio Angius e Alessandro Comodin.
Da regista quali sono i personaggi che ha portato sul grande schermo ed ha sentito più vicino alla sua sensibilità.
Sicuramente le due protagoniste de “L’ultima festa”, perché sono personaggi che conosco da sempre, con cui ho vissuto e che in parte hanno alimentato il mio fascino verso le vite inespresse che sullo schermo hanno finalmente la possibilità di trovare il loro spazio.
Nel 2017 ha realizzato il documentario “Grandi ma piccoli”, interamente girato in una Rsa, da dove nasce questa esigenza sociale di raccontare con delicata attenzione umana l’Alzheimer
“Grandi ma piccoli” è un documentario a cui sono molto legato perché la protagonista è mia nonna. Il punto di partenza anche in questo caso è stata la volontà di esplorare un angolo nascosto della nostra società, un luogo su cui nessuno ferma lo sguardo: una RSA i cui pazienti sono non coscienti o sono malati terminali di Alzheimer. Le storie, lì dentro, sono dolorose, ma paradossalmente anche piene di vita. Fermarsi ad osservare, per una volta, quell’universo che tendiamo ad evitare e non considerare, può essere molto illuminante. E, inoltre, nel documentario viene raccontato il rapporto tra mia madre e mia nonna, malata di Alzheimer, e i loro tentativi di comunicazione, nel segno di un amore che supera la necessità della comunicazione verbale.
Che messaggio e che possibilità dà oggi il mondo della cinema e del teatro ai giovani artisti in un settore particolare e in perenne cambiamento e ormai assorbito dalla rete?
In questo momento le possibilità sono un po’ ristrette, ma sicuramente quello che si può fare è continuare sempre a insistere, per trovare un percorso che possa essere il più affine ad ognuno di noi. Sicuramente ciò che non bisogna tralasciare è l’esperienza e la formazione. Non si deve aspirare a essere registi solo per la velleità di definirsi registi, senza avere mai avuto magari nemmeno esperienza di un set. Essere registi (e più in generale, dare vita a una storia) è un lavoro complesso, che richiede anche una componente organizzativa, e per questo – come per tutti i lavori, d’altronde – è necessario formarsi, prepararsi, approfondire, e non improvvisarsi.
I suoi impegni futuri
In questo momento sto lavorando al mio primo lungometraggio dal titolo “Tutto l’universo”, scritto insieme a Lorenzo Bagnatori, prodotto da Movie Factory con il sostengo di Marche Film Commission.
Commenti
Posta un commento