Davide ci racconti di Lei, chi è Davide
Bottiglieri come persona?
Il mio
rapporto con la scrittura nasce durante gli anni liceali e, nel tempo, è andato
incontro a una naturale evoluzione. Mi ci sono approcciato perché rappresentava
la forma d’arte a me più congeniale attraverso cui manifestare la mia
creatività. Semplicemente inventavo storie. Davo sfogo al processo creativo.
Poi, come se fosse un autentico rapporto tra due amanti, sono andato oltre. Ho
scoperto il lato catartico della scrittura: ho imparato a conoscermi e a
conoscere il lettore attraverso le parole. Ho apprezzato la bellezza della
sintassi, la difficoltà nel costruire storie più complesse. Ho compreso
l’importanza dei conflitti e dell’analisi dei personaggi. Costruire storie,
relazioni e intrecci mi ha “costretto” all’esercizio di indossare i panni
dell’altro e affinare la mia empatia. Innamoratomi della narrativa, ho voluto
approfondire ulteriormente la conoscenza della scrittura, ammirandone le altre
vesti: ecco la sceneggiatura o il mondo giornalistico. Il mio rapporto con la
scrittura è diventato via via più consapevole: ad oggi direi che è il mezzo
attraverso cui cerco di essere una persona migliore.
Il
fantasy è stato forse il primo amore. Fantasy, sotto alcuni punti di vista, è
sinonimo di libertà. In un età in cui la mia principale esigenza era quella di
buttar giù storie e creare mondi, il genere fantasy era quello che mi dava
maggiori margini di manovra. Successivamente mi sono cimentato in tutti gli
altri generi, convinto che uno scrittore capace dovesse essere in grado di
scrivere di tutto. Gli anni hanno formato il mio carattere e, poiché la
scrittura è forma d’espressione e non mero esercizio tecnico, la mia penna si è
via via tinta di nero. Il noir, ancora più del thriller, è il genere che
maggiormente mi rappresenta. Folgorato dalla letteratura gialla e aderente a
processi causa-effetto che trovo a me congeniali, ho virato poi verso la sua
versione più cupa, quella che recupera dal romanzo gotico il tormento.
L’anti-eroe, lo sconfitto, la vittima, l’assassino, il domandarsi il “perché”
piuttosto che il “come”, l’indagare le motivazioni piuttosto che soffermarsi
sulla sola indagine erano gli ingredienti giusti. Spiegare perché amo il noir
sarebbe come spiegare perché si ama il proprio compagno o la propria compagna.
Citando Parmenide: l’essere è e non può non essere.
Credo di
aver avuto due grandi maestri. Il primo è stato Tolkien, sublime nelle
descrizioni. Conan Doyle, invece, mi ha reso giallista. Quando lessi “Uno
studio in rosso” mi si aprì un mondo e iniziai a divorare tutto ciò che
riguardasse Sherlock Holmes. Eppure già da lì capii di non voler scrivere
gialli puri: del noto investigatore di Baker Street i suoi “lati oscuri” mi
affascinavano più della mente sopraffina; della maldestra e divertente
incapacità di Scotland Yard o dell’efficienza del dottor Watson preferivo
l’ambiguità del professor Moriarty. Trovavo straordinariamente eccitante quel
personaggio, le sue rare apparizioni, la descrizioni offerte da Sherlock Holmes
e la sua paradossale ammirazione verso un uomo tanto pericoloso quanto geniale.
Nei miei libri non ho potuto evitare di inserire riferimenti al mondo creato da
sir Arthur Conan Doyle.
Soprattutto
all’interno dei primi lavori, l’autore riversa molto di sé nelle pagine che
scrive. Allo stesso modo, ogni personaggio di Omicidi in si minore e Prove per
un requiem rappresenta una parte di me e pertanto sono legato a tutti. Se
dovessi fare dei nomi, direi: Ljudevit, il dottor Mesmer ed Helena.
Il primo
è il protagonista dei miei libri, giovane e brillante ispettore, romantico
anti-eroe per eccellenza, con tanti punti in comune con la sua nemesi, l’assassino
nei miei romanzi. È un uomo tormentato, che si presenta già con evidenti crepe
nell’anima e che, con l’andar delle pagine, sarà sempre di più catturato
dall’oscurità. È tutt’altro che infallibile e paga a caro prezzo ogni suo
errore.
Il
dottor Mesmer, personaggio storico davvero esistito e creatore del
“mesmerismo”, è la sua fedele spalla. Ho adorato caratterizzare questo
personaggio. È un uomo dalla vasta conoscenza, che accetta di aiutare il
protagonista solo per poter riscattare il suo nome agli occhi dei grandi
luminari del Sacro Romano Impero, ma che successivamente si affeziona a
Ljudevit e ne osserva la terribile metamorfosi. Consapevole della sua
importanza nella vita del protagonista, abbandona i suoi iniziali egoistici
propositi e resta al suo fianco per vegliare su di lui, nel tentativo di
salvarlo dalle oscure derive della sua mente.
Helena è
una donna incredibilmente forte e indipendente, un po’ in antitesi con
l’immaginario collettivo di donna dell’epoca, sempre un po’ assoggettata non
solo all’uomo, ma anche alle briglie sociali. Non è preda, ma predatrice.
Osserva ogni cosa con la volontà dichiarata di conoscerla e farla sua, eppure
bilancia in modo sublime il suo lato felino con una straordinaria dolcezza.
Accarezza l’animo tormentato del protagonista, ne percepisce la fragilità e,
pertanto, ne sfiora le crepe con quella leggerezza amorevole che funge da
unguento e non da peso, allontanando ogni rischio di rottura. È da queste
caratteristiche che nasce il suo irresistibile fascino, più che dalla sua
evidente bellezza fisica. Il suo rapporto con Ljudevit ha ancora molto da
raccontare.
Nasco scrittore, morirò scrittore. Scrivere romanzi e sceneggiature sono esercizi molto diversi, ed entrambi hanno un proprio fascino. La sceneggiatura è un meraviglioso lavoro di immagini, di cui adoro la necessaria cura della regia. Il romanzo sfrutta l’immaginifico del lettore e, pertanto, per quanto l’autore possa dirottare abilmente il pensiero di chi sta leggendo il suo testo, ogni lettore creerà nella sua mente un’immagine diversa, aderente alla sua personale sensibilità. Questo forma un legame particolare tra scrittore e lettore. Il libro non termina mai con l’ultimo punto dell’ultima pagina dell’ultimo capitolo. Ogni presentazione è un’occasione per arricchire la storia di una sfumatura diversa, non più aggiunta dall’autore, ma di chi ha letto le pagine ne ha distillato un colore proprio, del tutto nuovo.
8. Che messaggio e che
possibilità dà oggi il mondo della cultura ai giovani artisti in un settore
in continuo cambiamento come il teatro, la scrittura, il cinema e la
televisione ormai assorbite dalla rete?
C’è spazio in Italia per giovani artisti talentuosi ?
Credo
che ci sia sempre spazio per i giovani artisti talentuosi. È cambiato
sicuramente il tipo di talento che la società di oggi richiede e il luogo in
cui trovare questo spazio.
Il mondo
della cultura è sempre riflesso della società di riferimento. Questa è l’epoca
della “società dell’apparire”, motivo per cui un talento fondamentale da avere,
al di là di quelli “classici”, è la spiccata capacità di “vendersi” bene,
capire quali sono i canali che danno maggiore visibilità e saperli sfruttare. Ad
oggi, anche in tantissimi campi artistici, sembra prioritario apparire
piuttosto che essere. Basti vedere quanti talent-show sono nati, che successo
hanno e quali artisti vengono “portati avanti”. Anche su palcoscenici più
importanti spiccano maggiormente gli artisti più appariscenti, alcuni dei quali
sono più noti per l’abbigliamento o la coreografia che per le doti canore o di
scrittura. Questo dà misura di cosa si cerca oggi. Questo non significa che non
è importante avere un talento cristallino nel canto o nella musica o in altro.
Semplicemente non è più prioritario, che è diverso. Credo che adesso sia
richiesto un profilo molto più complesso, non basta più saper solo cantare, scrivere,
recitare etc. E voglio credere che queste capacità siano ancora importanti,
sebbene non più prioritarie. Ad oggi, per poter emergere, bisogna sapersi
vendere più di ieri. Un artista non “vende” più solo la sua arte, ma anche il
suo “personaggio”, che alle volte corrisponde all’artista stesso, altre volte a
una sua versione artificiale e costruita. Ed essendoci un prodotto in vendita,
bisogna rispondere alle richieste del mercato. Questo non vuole svilire la
figura dell’artista dei giorni nostri, semplicemente rendere consapevoli che un
ragazzo o una ragazza con serio interesse di emergere nel mondo dell’arte e
della cultura, non solo deve studiare tanto, ma deve anche essere poliedrico e
ragionare su più fronti, non solo prettamente artistici.
Salerno è l’eterna incompiuta. Una città che ti fa innamorare e disperare allo stesso tempo. Offre tanto, ma comparato a quanto potrebbe dare è davvero ben poca cosa. Qui ho i miei affetti, le mie radici e i miei ricordi. Il mio rapporto è pertanto viscerale e, da persona innamorata della propria città, così come altri, ho provato a dare il mio piccolo contributo per elevarla. Ma per un autentico salto di qualità, ci vorrebbe qualcosa di più strutturale e persone di caratura ben differente rispetto a Davide Bottiglieri.
I suoi prossimi impegni.
Numerosi,
tanto per cambiare, ma li sto piano piano riducendo. Ho in calendario numerose
presentazioni del fumetto, qui in Campania e fuori. Chiuderò tra un po’
un’altra sceneggiatura cinematografica e che sarà, almeno per un bel po’, anche
l’ultima. Voglio riprendere la stesura di romanzi, i tempi sono maturi e ne
sento l’esigenza. Da lì in poi non mi allontanerò più da quella forma di
scrittura che tanto amo.
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