A Sokcho, cittadina di pescatori vicina al confine settentrionale della Corea del Sud, la giovane Soo-ha lavora in una piccola pensione. È franco-coreana, ma non ha mai lasciato il Paese: il mondo le arriva solo attraverso i racconti degli altri. Quando alla pensione arriva Yan Kerrand, illustratore francese alla ricerca di ispirazione per il suo nuovo graphic novel, tra i due nasce un rapporto sottile, fatto di silenzi, piccoli gesti, attrazioni trattenute.
Ill cinema coreano ha la delicatezza di tocco di certe graphic novel orientali. Nel caso di Un inverno in Corea il paragone non è peregrino.
Tratto da un libro che ha avuto ottimi riscontri e premi in Francia di Elisa Shua Dusapin (autrice franco-coreana cresciuta tra Parigi e Seoul) ed edito in Italia da Finis Terrae con il titolo di Inverno a Sokho, ci racconta di un rapporto, inizialmente sottile ma ricco di sfumature profonde, tra una giovane franco-coreana che lavora in una pensioncina e un autore di libri illustrati francese venuto nella città marinara e di frontiera, nella stagione fredda, a cercare ispirazione e immagini: “amo la loro melanconia... amo posti che non si rivelano immediatamente, raccontare storie...solitudini che si incontrano” .
Aldilà dell'iniziale cortesia, tra Soo-ha (Bella Kim) e l'introverso, e altrove noto artista Kerrand (Roschdy Zem), tra gentilezze, passeggiate in montagna e dialoghi si stabilisce una conoscenza reciproca che inevitabilmente coinvolgerà tutti gli spettatori.
Sokho è una cittadina al confine con la Corea del Nord - e il film non manca di ricordarci la durezza di una guerra fratricida che spaccò letteralmente famiglie in due - che vive di pesca, un po' statica (il fidanzato della ragazza va a tentare la carriera di modello nella capitale: “A Seoul l'apparenza è più importante che qui”) ma abitata da persone gentili. La 25enne Soo-ha soffre nel non aver mai conosciuto il padre francese (un ingegnere dell'industria ittica venuto lì in trasferta lavorativa) e vorrebbe tanto che almeno la madre, una intensa Mi-Hyeon Park (Two Sister e Squid Game), cercasse di scoprire qualcosa di un genitore che non sa peraltro di esserlo, visto che sono passati 25 anni senza notizia alcuna.
Il film è diretto da Koya Kamura con molta attenzione a non calcare mai la mano, facendo “parlare” gli ambienti, i dettagli e anche i silenzi ritrosi, con appropriata sensibilità . Si veda ad esempio quando nel bagno “gioca” a confondere i corpi della madre e della figlia in “quegli abissi di tiepidità ” come canterebbe Paolo Conte. Kamura è al suo primo lungometraggio dopo due corti ma davvero non si direbbe (il testo però gli deve avere dato una grossa mano, e tra gli sceneggiatori spicca il nome della scrittrice).
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