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A Napoli Romeo Castellucci con il Requiem di Mozart al Teatro San Carlo

mag 4, 2023 0 comments


Una inedita versione scenica del Requiem di Mozart quale prologo delle Wiener Festwochen.

Il regista ospite, Romeo Castellucci, si dedica all’ultima opera incompiuta di Wolfgang Amadeus Mozart, la cui messa in scena è un capolavoro e un inno alla vita.

Castellucci riesce a creare, insieme al direttore d’orchestra Raphaël Pichon e all’ensemble Pigmalyon, composto da orchestra e coro,  uno spettacolo in cui il divenire e il morire si fondono insieme inebriando lo spettatore. Danze in cerchio, battaglie di colori, materiali e immagini oscillano tra celebrazioni di ciò che verrà e addii solenni. In questa versione esteticamente scenica il coro ha il ruolo di protagonista centrale.

Per Castellucci, la speranza cristiana per la salvezza nell’aldilà diventa il necessario nuovo inizio per la prossima generazione.



Il risultato è un Requiem che dura un’ora e quaranta che, malgrado le aggiunte (frammenti dal Meistermusik, Miserere mei, Ne pulvis et cinis, Solfeggio F-Dur, Quis Te comprehendat e O Gottes Lamm), si presenta di grande coerenza, musicale e visiva, molto poetico, che partendo dalla morte di una donna anziana celebra tutte le estinzioni, di animali, di piante, di popoli, di città, di civiltà, di religioni, di lingue, di edifici, ecc. (sono delle scritte che scorrono di continuo a ricordarceli) per terminare con il pianto di un neonato, evidentemente registrato, ma il bebè (l’anziana che è rinata?) uscirà pure a ringraziare il pubblico, quindi il messaggio finale è di rinascita, sempre, perché tutto solo si trasforma, un messaggio di speranza che fa lasciare la sala con il cuore leggero. È quindi un Requiem per i vivi, che aiuta chi resta a superare il dolore della perdita, e le danze si presentano come riti collettivi che danno un senso all’individuo nel suo essere parte di una comunità che ricorda, un momento di rafforzamento di legami, di fratellanza e benevolenza.



Se Castellucci non inventa in questo caso niente di nuovo, sfrutta al meglio la sua estetica ed i gesti  che ne identificano ormai lo stile: molte immagini sono ispirati ad opere sacre celebri, a cominciare da quelle di Michelangelo; è tipico di Castellucci poi la presenza di masse di persone normali; i colori versati sul corpo di una bambina che poi viene appesa al muro, i cumuli di terra in scena; sono tutti momenti che hanno il sapore del già visto ( per chi conosce già altri lavori del regista) ma non annoiano perché qui carichi di senso nel percorso che Castellucci ci propone. Nel Requiem di Mozart protagonista è, si sa, innanzitutto il coro. I cantanti, tutti bravissimi, sono quindi tra la gente, in qualche momento emergono dalle masse, ma è molto bello vederli normalmente integrati nei gruppi cantare e danzare nelle efficaci coreografie firmate Evelin Facchini. Il soprano è la francese Sandrine Piau dagli acuti particolarmente luminosi, tutti italiani gli altri tre: la parte del contralto affidata alla bravissima Sara Mingardo, il tenore è Anicio ZorziGiustiniani, il basso è il profondo Luca Tittoto. Una menzione a parte merita il piccolo soprano Chadi Lazreq, dieci anni, entra in scena giocando innocentemente a pallone con un teschio, vera voce d’angelo, figlio di musicisti, talento precocissimo che ha debuttato in pubblico proprio in questa parte al Festival d’Aix quando quindi aveva solo sette anni. I suoi interventi, uno dalla sala tra il pubblico, sono alcuni dei momenti più alti e toccanti dello spettacolo. Il coro e l’orchestra, pure ottimi, sono dell’ensemble Pygmalion, in residenza prima all’Opera di Bordeaux e adesso presso la Filarmonica di Essen, diretti con grande sensibilità ed eleganza da Raphaël Pichon. Conquistano anche i bei costumi, studiati dallo stesso Castellucci, così come le scene minimaliste e le luci, con la collaborazione di Silvia Costa: colpiscono in particolare i vestiti bianchi che richiamano allo stesso tempo quelli dei sacerdoti in certi film di fantascienza e, egualmente, quelli originali dei ballerini della Sagra della Primavera, costumi che si colorano di rosso e si arricchiscono di fiori proprio come si usa nelle tradizioni del nord ed est Europa.

Si potrebbe partire da un dato storico, che è quello scelto da Castellucci per dare l’avvio al dialogo: ossia, il nesso fra la nascita del teatro moderno e la morte di Dio (con tutti gli effetti e ambivalenze legate alla dinamica sostitutiva che un tale evento può mettere in moto: dalla confessione estetica dell’arte come nuova religione a quella della fede della bellezza come salvezza). Così stimolata dal versante artistico, la teologia non può evitare di interrogarsi, e di cercare di comprendere, sulla forza generativa insita nel paradigma della morte di Dio. E, forse, deve iniziare a dismettere tutto l’armamentario che ha messo in campo per cercare di negarla – proprio perché così facendo si impedisce di cogliere il movimento generativo di cui essa è capace, anche per la fede.

Il peso dell’affermazione storica non cade però solo sulle spalle della teologia, anche il teatro è chiamato a dichiararsi davanti a essa. Castellucci circoscrive con moderazione e chiarezza il lavoro che compete alla messa in scena teatrale (nella sua distanza dalla religione): il teatro mira a far accendere nello spettatore una domanda, niente di più di questo. Domanda per cui il teatro confessa di non avere risposta, né di volerla cercare, perché questo compete eventualmente allo spettatore stesso se lo desidera. In questo modo, l’opera teatrale funziona, al massimo, da attivazione di un’interpretazione di cui essa non si fa, fin da principio carico, proprio perché non intende rappresentarla.

Quindi, seconda differenza dalla religione, il teatro lascia solo lo spettatore con questo suo lavoro tutto da fare: l’ultima scena sancisce, dunque, quella solitudine dello spettatore che si annuncia fin dall’inizio della messa in scena (come momento che fa parte di essa e che, quindi, la costringe a un’apertura che non può e non vuole dominare). Si potrebbe dire che l’opera teatrale finisce senza sapere come finisce – un non sapere, questo, che appunto le sottrae ogni potere sullo spettatore stesso e sulla sua interpretazione (per la quale neanche l’opera compita rappresenta un canone normativo).

Più puntualmente sul Requiem, Castellucci ha tenuto a precisare che non si tratta di un’opera di Mozart pensata per il teatro (per quanto la sua musica sia intrisa di elementi teatrali), quanto piuttosto per una messa funebre. Ora, ciò che colpisce il regista teatrale nel Requiem è una dissonanza che lo ha interrogato da lungo tempo: quella di una gioia di fondo che emerge da una musica pensata per celebrare il lutto della morte.

Se non erro, nella sua messa in scena del Requiem, questa gioia trova il suo riverbero soprattutto nei corpi che danzano – lungo una musica che si muove su parole gravose e cariche di un senso della finitudine che sembra paralizzare ogni gesto. Tutto questo mentre sullo sfondo del palcoscenico scorrono le immagini delle grandi estinzioni della storia del nostro pianeta – che sembra essere fatto così più da mancanze e vuoti di ciò che non è più, che dà ciò che occupa oggi i suoi spazi.

Da un lato, colpisce la forza estetica della scena teatrale capace di ospitare tutte queste dissonanze senza volerle risolvere in un’armonia superiore, ma anche senza arrendersi alla loro reciproca contraddittorietà che le vorrebbe scindere l’una dalle altre per dichiararne l’impossibilità della contemporaneità e della coesistenza.

D’altro lato, la messa in scena del Requiem ha anche il sapore di una restituzione: pensato per un atto liturgico (ma qui la critica musicale si divide), esso ha finito per avere più un destino concertistico che rituale. Il gesto di Castellucci, che lo porta al luogo improprio del teatro, lo riavvicina a quel tenore performativo e scenico che dovrebbe essere l’imbastitura portante della celebrazione cristiana.

Ed è proprio rispetto alla dimensione liturgica che si produce la vicinanza più alta fra teatro moderno e cattolicesimo. In merito, l’artista non può che registrare una crisi della qualità liturgica della celebrazione; che sembrerebbe annidarsi proprio nel punto di massima prossimità con il teatro: quello della ripetizione, appunto.

Se il teatro può tenere fermo davanti alla liturgia che la ripetizione non è un ostacolo, anzi, all’evento performativo in cui accade qualcosa, la teologia è indotta a chiedersi le ragioni di quella “perdita dei sensi” (Illich) per cui nella celebrazione cristiana non sembra accadere più nulla – attanagliata nell’involuzione di una ripetizione solo meccanica su una scena dove già tutto è scritto (e saputo) da prima.

Eppure, alla teologia così stimolata dal teatro sorge il dubbio che ci siano anche altre ragioni che sfociano nel fare della liturgia una dottrina e dei suoi gesti concetti. Finendo così per disattivare quella performatività che abita i gesti e le pratiche della celebrazione liturgica stessa. Ma ci si può spingere un po’ più in là, ricongiungendosi al punto dal quale tutto il dialogo è partito – ossia, dal nesso generativo fra morte di Dio e teatro moderno.

Appunto, se il teatro moderno si genera dal congedo di Dio (Caproni), allora è proprio questo evento che il lutto della fede dovrebbe celebrare per riconfermare la liturgia nella sua funzione performativa del e per il credere.

Invece, l’inquadramento ecclesiastico della fede ha finito per immunizzare la comunità credente dall’evento storico; e lo ha fatto più per preservare se stesso che per custodire una tradizione di pratiche e gesti ritenuti essere il bacino di una forza operosa a cui la fede stessa può attingere. L’eccesso di stabilizzazione con cui la Chiesa cattolica ha reagito alle evenienze storiche della modernità occidentale ha prodotto una liturgia museale, che in fin dei conti non chiede neanche di essere celebrata comunitariamente per poter diventare ciò che è. Trasformandola da strumento (sacramentale) di un accadere sorprendente e inatteso a un fine (istituzionale) in se stesso – di cui si può disporre come mezzo del proprio potere.

Solo quando sarà capace di celebrare il proprio requiem, su passi di danza che evocano una gioia controfattuale (e quindi mettono in scacco la pretesa assoluta della realtà), la Chiesa cattolica potrà forse trovare in questa stessa celebrazione la forza generativa racchiusa nel paradigma, troppo abusato o bistrattato, della morte di Dio.

Perché solo se celebrata, la fine si apre su orizzonti di una speranza inattesa – come un cucciolo d’uomo che a gattoni muove i suoi primi passi giocando con la realtà del mondo.

Opera

 

Dal 16 al 20 Maggio 2023

 

Wolfgang Amadeus Mozart

REQUIEM

 

Direttore | Raphaël Pichon

Regia, Scene, Costumi e Luci | Romeo Castellucci

Associate Director and Costume Designer | Silvia Costa

Dramaturg | Piersandra di Matteo

Coreografia | Evelin Facchini

Collaboratore luci | Marco Giusti

 

Interpreti

Soprano | Giulia Semenzato

Mezzosoprano | Sara Mingardo

Tenore | Julian Prégardien

Basso | Nahuel Di Pierro

Singing child | César Badault*

 

Ensemble Pygmalion

 

Orchestra e Balletto del Teatro di San Carlo

Direttore del Balletto | Clotilde Vayer

 

 

debutto al Teatro di San Carlo
* solista del Münchner Knabenchor

 

 

Produzione del Festival International d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence in coproduzione con La Monnaie / De Munt, Adelaide Festival, Theater Basel, Wiener Festwochen e Palau de las Arts Reina Sofia di Valencia

 

 

Teatro di San Carlo | BLU
martedì 16 maggio 2023, ore 20:00 – A – BLU - III

mercoledì 17 maggio 2023, ore 18:00 – B- BLU- IV

venerdì 19 maggio 2023, ore 20:00 - C/D – BLU- IV

sabato 20 maggio 2023, ore 19:00 - F – BLU - III

 

 

 

Durata: 1 ora circa, senza intervallo



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