Intervista a
Gabriella ValeraLa profusione del dialogo, l’impegno sociale e civile di donna.
Ritratto di Gabriella Valera Gruber,
storica e poeta di origine campana.
Il ruolo di docente universitaria - “Critica e Storia della Storiografia” la sua cattedra a Trieste – non le ha limitato la “missione” di promotrice culturale. Attualmente in pensione, sempre supportata dal marito Ottavio Gruber, continua a svolgere intero il suo ruolo di intellettuale completa, dirigendo un Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile, da lei stessa fondato, e promuovendo progetti che si spingono ben oltre il territorio nazionale. Alcune di queste sue iniziative sono rivolte alla cultura giovanile: il
Concorso Internazionale di Poesia e Teatro Castello di Duino e il Forum Mondiale dei Giovani Diritto di Dialogo. Di questi due grandi eventi è direttrice artistica e scientifica, nonché curatrice delle pubblicazioni che ne derivano.
Castello di Duino - Provincia di Trieste
-A Gabriella Valera Gruber, intellettuale a tutto campo, chiediamo:
In una intervista rilasciata a Luigia Sorrentino, giornalista professionista e poeta, ha affermato che per lei la “città ” è quasi un linguaggio, che una volta appreso, non può essere dimenticato né omesso in nessuno dei nostri discorsi. Una frase con la quale ha inteso spiegare il suo impegno a favore del dialogo, e che a nostro avviso apre prospettive, nel senso che lascia immaginare dialoghi destinati a stabilire legami, patti sottointesi e indissolubili.
Trova analogia tra questa sua idea di “città – linguaggio” e quel “Lessico famigliare” che l’autrice Natalia Ginzburg riferisce nella prima parte del suo romanzo, quasi a voler stabilire empatia col lettore? Crede che l’approfondimento di un linguaggio più intimo possa servire a comprendere meglio il carico emotivo vissuto da una comunità ?
-“Dialoghi destinati a stabilire legami, patti sottintesi e indissolubili”, Lei mi dice, e immagina, a partire dalla mia suggestione della “città -linguaggio” che “l’approfondimento di un linguaggio più intimo possa servire a comprendere meglio il carico emotivo vissuto da una comunità ”.
È molto interessante questa sua decodificazione del mio “ sentire città ”. Ed ecco che nel risponderle, anziché immediatamente definire ed esplicitare il mio pensiero, mi affido ad un’altra formula che suggerisce piuttosto che denotare, e lo fa cogliendo il suo riferimento al carico emotivo e quasi intimo delle molteplici relazioni di cittadinanza.
Lei, però, dice “comunità ”, non città o cittadinanza. C’è una differenza? Quale?
La “città ” è un linguaggio e noi stiamo già parlandolo. Non esiste prima l’ “uomo”, con i sui diritti fondamentali e poi il “cittadino” : l’essere nella città e l’essere cittadino sono la relazione fondante, l’essenza dell’ “umanità ” e della “dignità ”, il presupposto di ogni ulteriore istituzione umana e civile.
Quando Aristotele parlava dell’uomo come “animale politico” faceva riferimento alla polis del suo tempo, una polis ben organizzata per distribuire poteri e capacità secondo chiare gerarchie e distinzioni: nulla che abbia a che vedere con il nostro “sentire” e “parlare” città .
Quando molti secoli dopo si discusse sulla stessa problematica definendo l’uomo come “animale sociale” lo si fece per giustificare la nascita del potere sovrano a partire dal bisogno di società che il singolo non sarebbe stato in grado di conservare se non affidandosi ad un potere superiore di decisione. L’uomo animale sociale diventa cittadino in virtù di una sua condizione di “minorità ” rispetto al potere che lo “protegge”.
Oggi nel nostro mondo contemporaneo sappiamo che il potere superiore di decisione significa che quel parlare-città è negato a un numero inimmaginabile di persone nel mondo, è ristretto entro limiti molto precisi per altre, è offeso dalla violenza e dalla sopraffazione da altri ancora, è disconosciuto per l’ignoranza e il “non essere città ” di molti.
Eppure senza quel linguaggio che è il linguaggio della relazione e del dialogo non c’è l’ uomo che per essere ha bisogno di essere “riconosciuto”, e ciò avviene soltanto nella relazione di cittadinanza. In questo senso la città è un linguaggio primario, deriva dallo statuto di umanità di ciascun singolo, è prima di ogni altra sua declinazione giuridica e istituzionale.
E’ forse vero, come lei suggerisce, che la lingua della “città ” si impara a partire dal linguaggio “famigliare” di cui dice Natalia Ginzburg; è già tutta intrisa di relazione quella vita dentro la famiglia e dentro ogni tipo di comunità . Ma la lingua della città va oltre: è consapevole, del suo infinto e molteplice essere “pubblico” nel senso che la parola pubblico ha nel diritto, luogo del riconoscimento, della propositività e della performatività . Sentire città e parlare città significano sentire e dire la propria alterità come parte integrante del vivere insieme all’altrui alterità . In tempi di continue “contaminazioni culturali” (come si è soliti chiamare gli incontri delle culture) sentiamo spesso parlare di “accettazione” dell’altro. Ma quell’alterità che attribuiamo a qualcuno diverso da noi è la nostra stessa alterità , un attributo che compete all’uomo in quanto tale, a tutti gli uomini, a me, a lei, alla molteplicità degli incontri. Questo è “città ”. Senza questa città fatta di “altri”, e di quegli altri che siamo noi, e delle relazioni che continuamente vengono prodotte dai linguaggi con cui ci confrontiamo, non esiste dignità umana né cittadinanza come diritto, perché quest’ultima, pur nella straordinaria storia di lotte e di conquiste che ne hanno fatto uno dei pilastri del vivere civile, rimarrebbe ancorata ad un potere superiore che la realizzerebbe come strumento d’ordine e non di felicità .
La “città ” come linguaggio è interiore ma pubblica, è spazio fisico in cui la vita si rinnova ridisegnandolo con il suo movimento, è desiderio e speranza, è la “radice”, usando il termine in senso linguistico come metafora, delle parole che ci accompagnano e si moltiplicano nei nostri discorsi.
Così, tornando al senso profondo della sua domanda, vorrei dire che dal sentire-città al parlare-città c’è un salto qualitativo in cui è il parlare-città che rende più intenso il suo sentimento, è nell’esercizio del linguaggio che l’emozione esce dal recinto dell’intimità ed esalta la comunità aprendola alla realizzazione dei valori umani.
Che posto occupano i giovani nel suo cuore?, e trova riscontro di un ritorno a loro favore, con le iniziative intraprese per i giovani?
-Il mio luogo naturale è il silenzio. Ho lavorato per gran parte della mia vita facendo ricerca negli spazi piccoli e riservati delle biblioteche, oppure negli spazi ampi delle stesse, le sale di lettura, in cui però gi incontri, almeno nel mio modo di essere (non certo il migliore possibile), erano rarefatti, mediati da un pensiero che prevaleva su qualsiasi interlocuzione che lo interrompesse. Silenzio e solitudine alla base di una ricerca intensa rivolta a se stessa e al suo oggetto. I giovani, i miei studenti e poi tutti quelli che ho avvicinato attraverso la realizzazione dei progetti che lei ha menzionato, mi hanno chiamato ad entrare nello spazio aperto della dialogicità . Li ho ascoltati, ho accettato la sfida e il compito. Ho conosciuto giovani a migliaia, alcuni meglio, fisicamente, altri un po’ meno bene, ma in questo i social sono benedetti: Laudato sii mio fratello facebook, mi è venuto da dire qualche giorno fa ritrovando “giovane” di 28 anni un ragazzino che avevo conosciuto e a cui avevo voluto molto bene quando aveva sei o sette anni: e non è il solo, pur non essendo io una consumatrice esasperata dei social e quale che sia il discorso complicato che su di esso si potrebbe fare. I giovani dunque hanno altri linguaggi, sono forti e incoerenti qualche volta, sono aperti e li vorremmo chiusi, ubbidienti, trepidiamo per loro perché non sappiamo quale sarà il loro futuro. In realtà non sappiamo quale sarà il futuro in generale, non solo il loro futuro. I giovani se lo costruiscono, qualche volta ci tradiscono, ma hanno il diritto di farlo. E forse se ci sentiamo traditi è perché noi li abbiamo traditi. Non bisogna ipostatizzare una strana immagine di “giovane”. Esistono le età della vita che scorrono di anno in anno. Ho incontrato “giovani” di straordinaria intelligenza, giovani spenti, giovani senza orientamento o giovani che con chiarezza e risoluzione perseguono la propria strada, anche giovani troppo condizionati da modelli sociali per me inaccettabili. Ne ho sofferto qualche volta ma ho cercato di comprendere e di dialogare, sempre. I ragazzi (mi piace chiamarli così) che ho conosciuto, che ho amato, guardandoli negli occhi e interiorizzando il loro essere donne e uomini così lontani da me da soffrire per il loro allontanarsi, come ogni madre sa e fa per i propri figli, stanno nel mio cuore, come lei giustamente ha detto, e non ho timore di usare una espressione che cede al sentimento. Per loro faccio il possibile, sia per dare loro, come strumenti e incentivi, i miei saperi, sia per appoggiarli, nel modo che posso, nelle loro carriere, sempre avendo come convinzione e speranza quello che mi è capitato più volte di dichiarare, sollevando il loro stupore: “Ragazzi, voi sarete e forse siete già più bravi di me!”. Mi hanno risposto tante volte con espressioni di riconoscimento a dir poco commoventi. E così mi sembra che non riuscirò mai a fare per loro quanto loro hanno fatto e fanno per me.
Cosa intende con l’affermazione “diritto al dialogo”?-La risposta non è semplice perché andiamo alle radici stesse della cultura giuridica contemporanea. Forse la spiegazione più immediata che io possa dare è che il “diritto al dialogo” impegna alla realizzazione di una “condizione dialogica”, mutevole secondo necessità e contenuti. Cominciamo col dire che il diritto al dialogo implica una revisione del paradigma individualistico: il titolare di un diritto al dialogo per definizione riconosce il superamento della chiusura individuale. Ricordiamo che la parola individuo deriva da in-dividuum, non divisibile, e in una parte della trattatistica giuridica veniva usata per indicare una qualità dei patrimoni o delle eredità . Nella prospettiva dialogica i diritti non sono “indivisibili”: altrimenti si giungerebbe a un punto in cui non è più possibile dialogare; anzi devono esser scomposti, elaborati, collocati in relazione per poter essere attuati e messi in forma. Anche per il “diritto al dialogo” e per la condizione dialogica la parola chiave è “relazione”. Ma deve essere molto chiaro che qui “relazione” non implica “relativismo”, opinione individuale che si afferma contro altra opinione individuale, senza trovare la forma in cui istanze e pensieri possano godere del gioco delle differenze. Nell’accento posto sulla relazione c’è piuttosto la presa di coscienza da parte di ciascun soggetto di essere quasi frammento dentro una complessità che si genera nei passaggi della vita, nelle lingue che si confrontano. Allora la “condizione dialogica” diventa precondizione e nello stesso tempo conseguenza di molti altri diritti. Ritorniamo per un momento al diritto alla città di cui prima si parlava. Un uomo che non sia cittadino (che sia cioè escluso dalla cittadinanza del luogo in cui vive o approda dopo lunga migrazione ed esodo) si trova in una condizione dialogica? Solo l’essere cittadino fonda e difende i diritti umani, che diversamente verrebbero lasciati alla buona volontà dell’umanitarismo e non sarebbero diritti. Chi vive in paesi coinvolti in guerre di cui talora non si ricorda più neppure l’origine (Voltaire scriveva parole sferzanti in proposito già parlando delle faide tardo medioevali o della prima età moderna) vive in una condizione dialogica? Se il diritto al viaggio, il diritto alla circolazione libera, il diritto ad esportare e importare prodotti culturali dal proprio paese o nel proprio paese, il diritto alla conoscenza, se tutto ciò viene impedito non per le difficoltà obiettive di un mondo di difficile gestione, ma programmaticamente, per timore di conoscenza, ci si trova in una condizione dialogica? Dove il sentire-città e il parlare-città sono soppressi ci si trova in una condizione dialogica? Potrei citare moltissimi esempi che vanno dai discorsi d’odio a quella che vorrei chiamare la diplomazia dell’odio, quando gli stati affermano la propria diplomazia ostile impedendo ai propri cittadini di entrare a fare parte di progetti culturali in cui siano presenti altri stati non graditi (anche se non vi sono condizioni dichiarate di guerra); oppure negano visti di ingresso per situazioni analoghe. Tutto questo può apparire banale, ovvio, necessario, immodificabile. Ma non è così. Se la diplomazia svolgesse il suo ruolo in nome di un paradigma dialogico, in cui gli stati, al pari dei singoli, dismettessero l’attitudine “individualista” dei diritti indivisibili di cui in quanto stati sovrani si dichiarano titolari, il tempo del “diritto al dialogo” sarebbe un tempo nuovo della storia. Non è così vicino questo tempo. Sappiamo che i processi culturali sono lunghi e si affermano con difficoltà , incontrando ostacoli, scontando irrigidimenti e incomprensioni, anche incapacità nel progettare le soluzioni corrette e regressi. Ma è importante anzitutto avere chiari alcuni principi. Fra questi il passaggio da un modo di pensare individualistico (non alludiamo qui all’atteggiamento delle persone ma proprio al pensiero che fonda questo atteggiamento e lo legittima teoricamente) ad un modo di pensare relazionale, con tutto ciò che questo comporta, è, credo, un principio fondamentale e fondante del diritto al dialogo, quindi del diritto in generale e di quell’ essere città a cui tanto aspiriamo nelle nostre singole vite.
Come viene scelto il tema del concorso che di anno in anno proponete ai giovani di tutto il mondo?
-Finora i temi si sono generati l’uno dall’altro a partire dai contenuti culturali ed emotivi espressi dai “ragazzi” nelle loro poesie. La XV edizione del concorso era dedicata al “Sogno”. In più d’una poesia mandata per quel tema Dio, smarrito, sembrava riflettersi nello specchio del suo Creato: la scienza non può giudicare l’amore, scriveva uno dei nostri poeti. E un altro autore scriveva: un Dio che permette il cancro (e tutto il dolore del mondo) è un Dio a cui bisogna urlare in faccia “Io amo”.
Un uomo che si pone dinanzi a Dio è un uomo che riflette su sé stesso, medita sulla sua collocazione nel mondo, sul suo rapporto con la creazione, con la sua libertà e con il suo destino. Così ho immaginato il tema della XVI edizione: “Homo faber: libertà e destino”. Questo tema è diventato ora anche l’asse di tutto il discorso culturale che nei giorni tra il 21 marzo e il 4 aprile animerà le presentazioni di libri, i dibattiti, i reading, le mostre, i workshop della nostra Festa della Poesia e della Letteratura; ci accompagnerà alle vere e proprie giornate di premiazione (speriamo che si possano svolgere normalmente, data l’attuale emergenza sanitaria: se non sarà così sarà soltanto un piacere dilazionato nel tempo, ma nessuno rimarrà deluso). Il nostro concorso vuole essere un progetto culturale molto più che una competizione e vuole creare uno spazio di conoscenza anche tra i ragazzi del mondo che vi partecipano. Non si conoscono: eppure il libro con le poesie dei vincitori (ogni anno tra quaranta e cinquanta) è un’ “opera” dalla coerente consistenza, tanto che dalla sua lettura il nostro sguardo esce trasformato. Passaggi fra canoni e lingue, tradizioni e creazione, un percorso straordinario d’anime.
A questo punto sarebbe doveroso chiedere a Gabriella Valera poeta, quale relazione vi è tra la poesia e la solidarietà operata. La risposta, sicuramente si trova proprio nei suoi versi, contenuti anche nella sua quarta e recente pubblicazione “Scendevamo giù per la collina”, tra l’altro citati da Enzo Santese nella sua accurata postfazione per il volume che fa parte della collana ASTERIA.
So solo il gesto:
quello che mi protende
verso la mano altrui
per dare e chiedere
il segno
di una bontà bambina e lieta
che canta
con il canto dell’usignolo.
Lei vuole aggiungere altro?
-Forse soltanto i primi versi della stessa poesia:
Colta da non so quale / profondità dell’essere/ e portata/ nel mondo delle cose/ mi sorprendo/ sperduta e inospitale// Eppure seppi un giorno/ la speranza e il dolce amore/ e la pietà mi prese./Allora seguii le tracce/ lentamente segnate/ e giunsi al centro del pensiero.
Mi è proprio lo smarrimento di fronte alla grandezza del mondo e ai suoi problemi, mi appartiene il sentirmi sperduta e anche “inospitale”, incapace di tutto quello che vorrei poter dare e mi è impossibile dare: e vivo allora cercando, seguendo le tracce del pensiero per porgere quel dono d’amore che non potrebbe diversamente sublimarsi nel suo senso.
Grazie davvero di questa intervista. Si trattava di domande e di argomenti non facili. Ogni declinazione del mio pensiero originario finisce per aggiungere qualcosa al mio dire e ne costituisce, io spero, la forza. Grazie.
A cura di Assunta Spedicato.
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