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L'attore Antonio Turco si racconta con passione: " ..sento che quel personaggio mi consente di inveire, urlare, soffrire, sognare in un altro corpo pronto a innumerevoli duelli.."

lug 28, 2023 0 comments



Antonio ci racconti di Lei, chi è Antonio Turco come persona?

Non la sa nemmeno Antonio Turco, in verità. Sembra una frase ad effetto per cominciare a discutere della questione, ma non lo è del tutto. E definirsi senza cadere in sdolcinate retoriche è molto complesso. Posso dire – questo senza ombra di dubbio – che sono un imbranato. Un imbranato di prima categoria, fatto bene. E, paradossalmente, questa mia qualità ha condizionato gran parte della mia persona, fino ad oggi. Qualche anno fa, questa mia “attitudine” non è che mi piacesse tantissimo, anzi la odiavo. Tendevo a nasconderla, ma l’imbranataggine non puoi celarla: prima o poi salta fuori. Se uno è imbranato si vede, si percepisce. Lo senti. E sono timido. Ovviamente, parlando di timidezza è facile pensare che sia la rinomata timidezza “che si cela dietro la maschera”; o la qualità indispensabile per essere un affascinante e carismatico artista: “uh, è un attore timido”. No, io sono un timido puro, di razza, senza mezzi termini e senza fascini di sorta. Io sono timido mio malgrado e non me ne vanto.  Fortunatamente, la recitazione ha limato i freni della mia timidezza: li ha resi meno ingombranti. In virtù delle caratteristiche appena menzionate, posso dire di aver raggiunto un buon grado di pazienza. Cercando di essere paziente con me stesso e le cose che di me odio, lo sono verso la realtà che mi circonda. E la realtà che mi circonda, di conseguenza, è paziente verso di me. Ci capiamo e ci assistiamo. È una azienda di mutuo soccorso. Amo stare in buona compagnia, ma adoro anche ritagliarmi (diversi) momenti da solo. Penso (almeno per me) che prendersi qualche momento fuori dalla (ormai, aggressiva) routine quotidiana sia sacrosanto. Sia linfa vitale. E, in contraddizione (apparente) con le caratteristiche appena sopra menzionate: adoro le competizioni. Amo competere con chiunque su qualsiasi cosa; mi creo - certe volte - delle competizioni mie personali: “quell’attore/quell’attrice è estremamente bravo/brava: io devo provare ad essere come lei/lui, se non di più”. Perdo. Perdo spesso. Ma è il gareggiare in sé che mi stuzzica e mi dà adrenalina. Ci campo, ecco. 

Come nasce la sua passione per la recitazione?

Nasce in una parrocchia, ad Aversa, città dove sono nato. Qui (e tutt’oggi è attiva), con una compagnia teatrale i figli delle stelle mettevamo in scena, sotto la guida di Emilia Cantile (“Lia”) diversi classici della tradizione napoletana: andando da Eduardo De Filippo a Scarpetta. A Lia e quegli anni devo il mio svezzamento e la rottura delle mie iniziali timidezze e difficoltà di approccio con qualsiasi tipo di pubblico. Avevo circa 14 all’epoca. Come nella più classica delle storie, insomma, sono un (e ne sono fiero) prodotto della periferia. Sono stati anni meravigliosi, li ricordo con nostalgia. 



Come si passa da laureato in Lettere Moderne allo studio sulla drammaturgia?

Sicuramente gli studi universitari hanno affinato tantissimo il mio sguardo critico verso la letteratura teatrale. Questo è indubbio. In seguito, tale preparazione mi ha consentito di avvicinarmi alla drammaturgia con determinati strumenti analitici. E, ancora, conoscere - in particolare, tra le tante materie - la storia del teatro è essenziale: ci mostra da dove veniamo e, a volte, a cosa andiamo incontro. Però, c’è da dire che affondare le mani nella drammaturgia applicata, ovvero, essere faccia a faccia con la sua valenza pratica è questione complessa e assai lontana dallo studio teorico, pur sempre utilissimo. Essendo la drammaturgia base fondamentale della recitazione e della creazione teatrale è (forse, a mio parere) una delle scritture più complesse che ci siano. Bisogna impegnarsi a ideare e mettere su carta una “parola parlata” che perciò viva; che sia uno strumento utile e non ingombrante nelle mani degli attori per dare vita allo spettacolo e ai personaggi che lo animano. Quindi, l’apprendimento di tale tipologia di scrittura passa per diversi anni di apprendistato, che sto con piacere attraversando. Bisogna scrivere, scrivere e scrivere. Leggere i grandi autori, capirne e sviscerarne i meccanismi, copiarli se necessario e assorbirne le principali qualità, per poi farle proprie, costruendosi, in questo modo, la propria identità autoriale. Si sa, niente nasce dal niente, soprattutto in drammaturgia. Esempio per tutti la drammaturgia napoletana. Vive e si rigenera da secoli e secoli senza mai fermarsi. Ogni autore ha lasciato (direttamente o indirettamente) consigli e nuove strade da seguire alla generazione successiva, generando così un moto perpetuo. Per quanto mi riguarda, sono ancora agli albori di una vera e propria consolidata carriera da drammaturgo: per adesso, solo piccole grandi tappe. Ma la mia passione per questa disciplina è tale, da non sconfortarmi più di tanto. E poi, l’ho detto: sono competitivo, le difficoltà le si accettano con piacere.

Quali sono gli artisti dai quali si sente maggiormente influenzato o da cui trae ispirazione?

Le influenze sono tante, oserei dire innumerevoli. E sotto tanti punti di vista. I grandi attori e le grandi attrici affascinano non solo per le loro imprese lavorative. Alcuni interpreti ci hanno lasciato un patrimonio di gesti, sguardi, modi di parlare, modi di non parlare: un patrimonio immateriale che è oro colato per le nuove leve in questo mestiere. Da qui, la lista è lunga: Vittorio Gassman, Monica Vitti, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, G. M. Volontè, Dario Fo, Glauco Mauri, Franca Valeri. Cercando di fare una cernita più particolareggiata, il mio sguardo cade quasi sempre sulla tradizione nostrana. Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, Massimo Troisi, Totò e Raffaele Viviani. Mi rendo conto: anche il solo elencarli rasenta il banale. Da lontano si cominciano a sentire i primi mandolini. Insomma: l’essenza delle osservazioni scontate. Ma qui parliamo di artisti, comici, scrittori che hanno tracciato con le loro vite pezzi di storia del nostro vissuto, quotidiano e artistico. Sono entrati nelle nostre case, hanno influenzato il nostro linguaggio e il nostro modo di porci verso la vita. Condizionano le nostre scelte. Ridiamo e commentiamo alcune situazioni usando le loro citazioni. Sono capitoli della storia dello spettacolo impossibili da evitare, non solo (ovviamente) per i campani e per gli italiani. In particolare, io sento di essere fortemente (e felicemente) influenzato dal patrimonio artistico napoletano. E di tale influenza, vado particolarmente orgoglioso.  E gettando un occhio al contemporaneo, seguo con estremo interesse Lino Musella: attore completo e meraviglioso. Infine, mi sento in dovere di citare i miei maestri: Claudio Di Palma e Renato Carpentieri. Due attori superbi ed estremamente diversi. Cerco di copiarli, ma non mi riesce spesso. 



Come giovane attore quali sono i personaggi che ha portato in scena ed ha sentito più vicino alla sua sensibilità.

Nei duellanti (con la regia di Mario Gelardi, riadattamento di Francesco Niccolini) ho la fortuna di vestire i panni di Gabriel Florian Feraud: un guascone rissoso che vive e sembra rigenerarsi nel conflitto. Oltre alle caratteristiche che emergono dall’analisi del copione e del romanzo di riferimento di Conrad, sento che il suo combattere (o, almeno, mi piace pensare che sia così) nasce anche come risposta ad una insofferenza verso una sua intima condizione di instabilità; una condizione anche di disamore fisico in contrasto con lo slancio e l’eleganza del suo avversario ventennale D’Hubert. Da qui, un punto di contatto tra me e lui: un certo disagio fisico che (magicamente) muore in scena. Non avendo un buon rapporto con il mio corpo (anche qui c’è un tacito accordo: io non dico niente a lui, lui non dice niente a me: sopravviviamo all’altro, senza parlarci) sento che quel personaggio mi consente di inveire, urlare, soffrire, sognare in un altro corpo pronto a innumerevoli duelli, durante quell’oretta in cui si svolge lo spettacolo.  Più in generale, essere in scena mi consente, per un breve lasso di tempo, di lasciarmi andare. Di abbandonare in un angolo tutte le mie noiose paturnie e di divertirmi a più non posso. In più, altri personaggi che sento molto vicini alla mia sensibilità sono quelli delle fiabe e delle favole: mi immergo negli spettacoli per bambini, come un bambino. 

Lei è uno dei fondatori del gruppo teatrale: Efemera teatro. Come nasce questo bisogno.

Tutto nasce durante la prima fase del lockdown per la pandemia da Coronavirus. Dalla necessità di non farci condannare dal tempo morto al quale la clausura ci costringeva e con una certa sete di esprimere un nostro particolare punto di vista del mondo all’interno del panorama teatrale napoletano e nazionale; su esortazione, in particolare, di uno dei nostri colleghi d’accademia Manuel Di Martino, decidiamo di affrontare questa avventura. Io non sono stato un vero e proprio “fondatore”: ho seguito una scia, un certo desiderio di unione in tempi difficili. L’ho seguita, fidandomi ciecamente dei miei colleghi.   Efemera è una realtà che cresce giorno dopo giorno. Seguo e collaboro con questo gruppo con una certa fierezza. È composto da colleghi e amici con i quali ho condiviso tre anni di scuola al Teatro Di Napoli (teatro Mercadante) e verso i quali nutro particolare stima e affetto, che in un lavoro come questo non guastano mai. Ci si occupa di formazione (laboratori per adulti e bambini) e, in diverse occasioni, abbiamo raggiunto diverse finali di bandi teatrali in giro per l’Italia, con lavori di drammaturgia collettiva: Catania, Milano, Emilia-Romagna, Roma e Napoli.  Essere parte di un gruppo consente un confronto continuo: si parla, si discute e si ragiona, si litiga perfino intorno a temi a noi cari; si crea e si mette in scena il frutto di un lavoro collettivo, che – spesso – consta di tantissimi sacrifici: partire da zero, in un mestiere del genere, non è semplice. È dispendioso dal punto di vista economico, fisico e spesso mentale. Eppure, insieme, unendo le forze, qualcosa si fa. E ottenere anche il più piccolo risultato, da qualcosa che è frutto del nostro tempo e delle nostre energie, ripaga tanto. E ancora: la libertà di esprimere a pieno e senza vincoli di sorta, le proprie idee e il proprio gusto artistico, è una grande possibilità. Tutto questo ci ha portato a unirci. Tante persone sono arrivate e sono andate via, lasciando – tutti, nessun escluso – un segno importante. E a loro va il mio ringraziamento per quello che hanno lasciato a me e al gruppo. Efemera è anche questo, una realtà viva e cangiante, in espansione, come giusto che sia. 



Preferisce scrivere o recitare..

Eh, sa che non lo so? Le sento materie molto affini. Spesso le ho sentite così vicine da non percepirne (quasi) alcuna differenza, almeno da un punto di vista pratico. Quando ho davanti una pagina bianca mi si delinea una situazione scenica con le sue dinamiche, alle quali, poi, vengono aggiunte le battute. E nella successiva formulazione di tali dinamiche, subentra, anche in scrittura, la recitazione. Aver studiato come attore mi consente di sincerarmi (nei limiti delle mie possibilità) dell’efficacia reale di una determinata scena, quasi all’istante. Anzi, spesso penso di essere un attore molto più efficace sulla pagina bianca, che non in scena. Altre volte invece, sento che la parte attoriale (più animale e fattiva) prevale sul drammaturgo in erba.  Durante la scrittura: fattori come il ritmo e la praticabilità di una battuta “in bocca ad un attore” vengono analizzati dalla mia parte attoriale; mentre il suo aspetto più sottile e sotterraneo, diciamo pure concettuale, quel valore in più che ogni drammaturgia (secondo me) dovrebbe avere, be’, di quello se ne occupa il pedante autore, quello noioso, l’altra parte.  A parte gli scherzi, ragionandoci sopra, penso di convivere in mezzo a questi due modi di vivere e pensare il teatro; poiché le considero strettamente connesse. E l’una dipendente dall’altra. Posso dirle che, sì, ci sono momenti in cui prediligo il drammaturgo all’attore, soprattutto quando mi va di stare alla scrivania, per leggere o cose così; mentre la parte attoriale, quando voglio saltare e scatenarmi su un palco. 

Che messaggio e che possibilità dà oggi il mondo della cultura ai giovani artisti in  un settore  in continuo cambiamento come il teatro, cinema e la televisione ormai assorbite dalla rete?  C’è spazio in Italia per giovani artisti talentuosi ?

Da questo punto di vista, sono diviso tra l’essere estremamente speranzoso all’essere estremamente disfattista. Per avere il tanto sperato “successo” (mediatico soprattutto) si è costretti a seguire una scia numerosissima di attori e attrici che cercano di trovare un po’ di spazio in un mercato saturo. Si cerca di fare quella comparsata lì, quella posa dall’altra parte. Fino a trasformarsi in veri e propri “prodotti da vendere”, per serie tv e film, se tutto va bene. Altrimenti, la famosa e aspirata “occasione” potrebbe non arrivare mai. E tutti ne siamo alla ricerca, sarei un ipocrita a dirle che non spero in una chiamata del regista della grande occasione. Questo però ci rende schiavi, purtroppo, di questa ruota delle possibilità. Ma credo, allo stesso tempo, nella qualità e nella formazione. Credo nella crescita e nella scoperta di nuovi orizzonti. Credo nel confronto continuo con il prossimo. E tutti questi step sono essenziali per fare questo mestiere, sia al cinema che al teatro. Spesso ritenuti poco pratici e non abbastanza “smart” per un mondo del lavoro che – semplicemente e fatalmente – corre e basta; ma le dico che (almeno per il momento, poi chissà il futuro cosa ci riserva) io un po’ chiudo gli occhi e non ci penso.  Vorrei essere un buon attore e un buon drammaturgo, cerco di studiare, capire e crescere sempre di più. Questo è, semplice. Forse non sono le parole adatte per entrare nel mondo del lavoro; sono parole poco pratiche, prive di cinismo, ma tant’è (purtroppo?) sono fatto così. 

Il rapporto con la sua città Natale .

Sono legato ad Aversa da un rapporto di odio e amore. Qui ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza, alcuni luoghi della città mi sono cari (soprattutto la sua parte storica che ritengo bellissima). Sempre qui, ho vissuto le mie prime esperienze teatrali e, quindi, da Aversa è partito tutto. Dall’altra parte, come ogni ragazzo di periferia, desidero nuove mete, che combaciano con obiettivi personali e professionali e, allora, in quel caso, la mia città Natale mi sta stretta. È un rapporto ambivalente, ma forse, alla fine, vi prevale sempre l’affetto, sull’odio.



 I suoi prossimi impegni.

Nel mese di agosto con Efemera: avremo uno spettacolo per bambini ad Agerola, scritto da me e Gianluigi Montagnaro, che ne curerà anche le musiche; la regia sarà di Manuel Di Martino. Lo spettacolo sarà la messa in scena finale di un laboratorio guidato da: me, Eleonora Fardella, Francesca Cercola, Manuel Di Martino e Gianluigi Montagnaro. In più, sempre ad agosto il gruppo andrà in scena, sempre ad Agerola, con uno spettacolo sui canti della Divina Commedia. Entrambi gli eventi sono inseriti nella rassegna de Sui sentieri degli Dei, il Festival Dell’Alta Costiera Amalfitana. Poi, alcune date con la mansarda teatro dell’orco di Caserta. . Il mese di settembre invece mi vedrà impegnato come assistente alla regia di Maurizio Schmidt per la messa in scena di Sogno di una notte di mezza estate, saggio del secondo anno degli allievi del Teatro di Napoli, che avrà luogo presso il teatro San Ferdinando.  Da ottobre, invece, parto in tournée con la Clitennestra, per la regia di Roberto Andò, con Isabella Aragonese, prodotto dal Teatro di Napoli. Durerà fino al prossimo febbraio. E, a dicembre, si torna con i duellanti (come sopra ricordato, con la regia di M. Gelardi) al Sannazaro (dal 15 al 17), con in scena me e Carlo Di Maro. 







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