Storia di un esperimento educativo unico al mondo, durato quindici
entusiasmanti anni e bruscamente interrotto dal regime fascista nel
1928, questo romanzo costituisce una splendida conferma del talento di
Antonella Ossorio nel narrare di miseria e riscatto, crudeltà e amore
nel paesaggio dell’infanzia abbandonata.
«C’era una volta,
c’è e ci sarà , un legame profondo, un senso di appartenenza, un patto
del cuore. C’era un popolo bambino e disperso. C’è e ci sarà , oltre gli
anni e le distanze, una sola grande famiglia».
1913, porto di Napoli. Attraccata
all’imbarcadero, come se a trattenerla non fossero cavi o ancore, ma
profonde radici abbarbicate al fondale, la Caracciolo, con i suoi tre
alberi a vele quadre, simili a vestigia di un bosco sacro, incute timore
e rispetto. Non tutte le navi possono vantare, come quel veliero,
memorabili imprese e avventurose circumnavigazioni del globo. Il tempo
delle battaglie cruente è, però, finito. La nave è in disarmo, destinata
a una ultima, nobile battaglia: diventare una nave asilo per quei
bambini, orfani o abbandonati dagli adulti, che vivono di furti ed
elemosine per le strade di Napoli, dormendo sui marciapiedi, negli
androni dei palazzi, nei sagrati delle chiese; ovunque vi sia un angolo
buono per rincantucciarsi. Tredici di loro sono già a bordo, li chiamano
i caracciolini e godono di un benessere superiore a ogni loro piú rosea
aspettativa, con un letto e il mangiare garantiti ogni santo giorno.
Sono affiorati da sottocoperta per venire a studiare l’intrusa, la donna
nominata dal rappresentante del Ministero della Marina direttrice della
nave asilo. Si chiama Giulia Civita Franceschi ed è pronta a
raccogliere la sfida rappresentata da quel veliero, e a capovolgere una
volta per tutte il destino di quel popolo infantile piegato dalla
povertà e dall’abbandono. Destino che sembra, invece, inemendabile per
Felice, il bambino che cerca ogni sera un angolo il piú possibile
riparato dove dormire con gli occhi spalancati sul buio e il nome della
madre sulla bocca.
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