Sono un attore trentaduenne, vivo a Roma da una decina di
anni e ho origini sarde. Nutro la passione per il teatro fin da ragazzo, motivo
che mi ha fatto venire a vivere nella Capitale. Non mi sarei mai aspettato che
si dovesse stare senza spettacoli e con le sale chiuse per così tanto tempo. Credo
di essere riservato quanto basta e mi piace correre.
Come nasce la sua passione per la recitazione e per la
regia?
Fin da piccolo ho fatto teatro, come molti mi sono
avvicinato al palcoscenico grazie al teatro amatoriale di provincia. Pur coltivando
altri interessi, i momenti in cui provavamo le scene erano per me quelli più
spensierati. Mi chiedevo anche cosa sarebbe successo se avessi fatto quella
scena in un altro modo e come fare per mettere in scena i testi che leggevo
quando frequentavo il liceo. E così mi sono appassionato alla regia. Il lavoro
di preparazione di uno spettacolo mi affascina come la sua esecuzione, anche se
per motivi diversi.
Quali sono gli artisti dai quali si sente maggiormente
influenzato o da cui trae ispirazione?
Ho avuto influenze di ogni tipo, come capita a molti della
mia generazione. Dal teatro classico al cabaret, dal dramma impegnato al
musical. Credo, comunque, che il pensiero di Eduardo de Filippo sia un punto di
riferimento. Mi dispiace molto non avere nel sangue il dialetto napoletano, ma
sogno comunque un giorno di poter lavorare sui testi di Eduardo. Un’altra
grande fonte d’ispirazione è la musica. Ma anche qui il campo si allarga
moltissimo, dai Pink Floyd a Fabri Fibra. E sono un fan di Nino Frassica.
Che cosa vuol dire per Lei “dirigere” dando vita ad
un buon spettacolo teatrale….
Significa provare i diversi modi con cui si racconta
una storia che deve smuovere lo spettatore seduto in platea. Credere nell’idea
e realizzarla. Capire come arrivare alla messa in scena finale, per poi lasciare
un messaggio nella bottiglia, che insieme al lavoro di tutti i reparti sia
coerente. Credo che un buono spettacolo, come un buon film, prenda posizione su
una tematica. Ovviamente niente è valido se non si riesce a instaurare il patto
di credibilità col pubblico e a suscitare un’emozione. E’ interessante capire
il motivo per cui un autore vuole raccontarci quella storia, che può durare
trenta secondi attraverso una battuta dissacrante su un argomento che interessa
solo a lui oppure tenerci incollati novanta minuti e farci ragionare su una
questione universale.
Che messaggio e che
possibilità dà oggi il mondo dell’arte a un giovane regista e attore in un
settore delicato e in perenne
cambiamento come il teatro e il
cinema ormai assorbiti dalla rete?
Non un messaggio rassicurante, siamo
in un momento di transizione epocale. Il linguaggio è in continua evoluzione e
quello artistico non fa differenza.
Con la compagnia ProjectXX1
porta in scena due spettacoli di teatro immersivo, cosa vuol dire….
Il teatro immersivo non si approccia al pubblico in maniera
canonica, la fruizione non è frontale, i performer ti girano attorno e lo
spettatore viene letteralmente affiancato dai personaggi dello spettacolo. Si
arriva in un luogo che non è la solita sala teatrale, lo spazio viene
modificato sulla base delle esigenze sceniche e lo spettatore si immerge nell’ambiente(talvolta
con una maschera), sommerso da input recitativi, sonori, olfattivi. Lo spettacolo
si svolge in più stanze contemporaneamente, con momenti in cui qualcuno scelto tra
il pubblico viene preso da un performer, portato in un luogo appartato e messo
a conoscenza di un “segreto”, è il cosiddetto “one to one”. E’ un teatro che
oltre ad avere molteplici livelli di fruizione non può essere visto nella sua
totalità, o quantomeno non in una sera solamente. E questo fa si che molti
tornino a vedere lo stesso spettacolo più volte. La compagnia ProjectXX1, con
cui ho lavorato, diretta da Riccardo Brunetti, è la più attiva in Italia su
questo versante ed è in contatto con le altre realtà internazionali che fanno
questo teatro da anni.
Il rapporto con la sua città Natale.
Sono cresciuto a Vejano, un piccolo paese in provincia di
Viterbo. Lì ho fatto parte delle prime compagnie teatrali giovanili e torno
spesso per trovare la mia famiglia. A diciott’anni mi sono trasferito a Roma e
purtroppo il legame artistico con il mio paese si è interrotto. La mia famiglia
è sarda, si è trasferita nel Lazio a fine anni ’80 e sentiamo tutti molto l’attaccamento
alle radici. Torniamo nell’isola almeno una volta all’anno e passiamo del tempo
con i parenti. Ma la Sardegna, oltre ad essere una terra ricca di bellezze
naturali, possiede una storia e una tradizione affascinante e silenziosa, che è
per me fonte di ispirazione artistica e non solo.
Come attore quali sono i personaggi che ha portato in
scena ed ha sentito più vicino alla tua
sensibilità artistica.
Quando ho affrontato il personaggio di Meursault, protagonista
de Lo straniero di Albert Camus ero combattuto tra il fascino e
il pensiero“ma dai, è impossibile che quest’uomo si fa andare bene tutto”. Per
fortuna, mi è capitato tra le mani, mentre provavo, L’ospite inquietante di
Galimberti, e di come una generazione di ragazzi possa lanciare i sassi dal cavalcavia
senza pensare che si può uccidere una persona. Un vuoto che la nostra società
non riesce a colmare, una constatazione che non ti lascia indifferente. Lì ho
capito che quella storia riguarda tutti noi, molto più da vicino di quanto
crediamo. Un altro personaggio a cui sono molto legato è il Prefetto del
Così è(se vi pare). Quando Francesco Giuffrè mi ha preso per quel ruolo
pensavo fosse molto azzardato, alla fine è pur sempre un personaggio di sessant’anni
fatto da un trentenne, ma Francesco voleva descrivere il potere nuovo che
scalza quello vecchio e alla fine rimane insabbiato nelle stesse dinamiche. Quindi
questo giovane governatore locale, fermo nelle sue idee, a poco a poco vede
sgretolarsi ogni convinzione e perde il suo ruolo perché lo scetticismo si era
impadronito di lui. Sono molto legato anche al Doge dell’Otello diretto
da Giuseppe Miale di Mauro, a Frate Lorenzo di Romeo e Giulietta, per la
regia di Selene Gandini, realizzato con la compagnia dei Giovani del Teatro
Ghione, e a Pentothal tratto dai fumetti di Andrea Pazienza, diretto
da Alessandro de Feo.
E le regie a cui è più legato….
La seconda vita di Francesco d’Assisi di Josè
Saramago, mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova con un testo che
prevedeva una compagnia di dieci attori, e di poter mettere in scena una storia
di rivoluzione e ribellione a tanti difetti della nostra società a cui siamo
ormai assuefatti. Mentre con Il figlio di Bakunìn di Sergio Atzeni ho
fatto un tuffo nella storia del novecento della Sardegna, raccontando la storia
di un uomo che non prende mai la parola, ma vive tramite i ricordi di chi lo ha
conosciuto. Un rapporto unico con la “verità”.
Il lavoro al tempo del “coronavirus” come
stanno rispondendo gli artisti a questa
emergenza virale ed umanitaria che ha colpito il mondo ed in particolare il
settore artistico culturale…
Il mondo dello spettacolo ha dimostrato grande
consapevolezza del dramma che stiamo vivendo. Ma c’è da costruire il dopo,
una sfida enorme. C’è molta più unità tra i singoli, si sono finalmente messe
sotto la lente le gravi condizioni in cui si trova la maggior parte di noi.
Pochi sono quelli che hanno continuato a lavorare durante la pandemia ed è
comunque un bene perché se si fosse fermato tutto sarebbe stato un vero
fallimento. In molti stiamo continuando a scrivere e progettare spettacoli per
quando si riaprirà. Certo che stare fermi per così tanto tempo è doloroso e
frustrante. C’è da augurarsi che questa unità del settore si rafforzi una volta
finito questo momento e che non sia solo un ricordo.
Preferisce più la regia o la recitazione?
Sono due facce della stessa medaglia. Quando penso a Eduardo come
punto di riferimento, ma anche a Dario Fo, Lavia, Binasco e tanti altri, noto che
sono uomini di palco. Davvero non saprei dire cosa preferisco. Magari fra
qualche anno avrò le idee più chiare.
Lei collabora con l’associazione Poiesis
Teatro con un corso di teatro per bambini. Ci racconti come vive questo
percorso.
Come una grande scoperta. Collaboro da un paio d’anni e ogni
volta mi stupisco della ricettività dei bambini. Mi colpisce come, pur con età
diverse dai 6 ai 10 anni, quando il gioco o l’esercizio è credibile non ci siano
differenze tra loro, anzi: diventano una ricchezza quando si crea un quadro. La
bellezza con la quale un bambino si butta in un gioco con la sua fantasia crea
un cortocircuito per cui anche io credo a quello che stanno facendo. Come se
per un momento mi dimenticassi dell’esercizio. Ci vuole una buona dose di
energia, ma durante la lezione ne danno altrettanta loro.
Redatte da Mino Carmine Ardolino
www.culturalclassic.
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