Dario ci racconti di Lei, chi è Dario Levantino come persona?
Ho letto troppo Pirandello per parlare di me. Davvero, non so chi sono. Credo di essere mille persone, altre mille agli occhi degli altri, altre mille ancora di giorno in giorno: la coerenza non è la mia ossessione.
Però posso dire che cosa amo fare. In ordine sparso amo: guardare le barche a vela che non posso permettermi, guidare col braccio fuori, leggere, scattare foto, andare in bici con la musica nelle cuffiette, scrivere storie, indossare le converse, giocare a scacchi, bere del buon vino, stare in classe coi miei alunni, guardare i classici del cinema, prendermi cura delle piante. Cose così.
Descriva il suo giorno lavorativo perfetto.
Mi sveglio alle 7. Non mi lavo perché mi sono lavato la sera prima. Faccio colazione mentre ripasso il tema che affronterò in classe. Alle 7:40 mi metto in bici, arrivo a scuola, entro in classe e mi dimentico del tempo. Coi miei alunni generalmente non ho un programma, o meglio, sì, ne ho uno ma da un punto di partenza prefissato finiamo sempre ad un altro approdo, più interessante di quello prestabilito. Non sono un mago. È solo il potere della letteratura e della narrativa.
Come nasce il suo amore per la scrittura?
Mi piacciono le storie e mi piacciono le parole. Quest’ultime, quando sono ben congeniate, mi emozionano, qualsiasi sia il supporto che le veicola (film, romanzi, canzoni rap ecc.). È per questo motivo che scrivo, nessuna menata filosofica o trascendentale: mi piacciono le storie. Le trovo uno strumento comunicativo senza eguali.
Insegnamento uguale passione per la scrittura.
Universalmente parlando, non credo; non mi pare che ci sia una correlazione. Che poi molti scrittori siano insegnanti, questa è un’altra storia. Certo è che per la mia, di scrittura, mutuo tanto dal mondo degli adolescenti, quindi la scuola mi offre un punto di vista privilegiato perché ho modo di vedere e toccare con mano il mondo dei ragazzi, che poi è lo stesso di quello che racconto nei miei due romanzi.
Lei è un professore, le chiedo è più difficile dirigere una classe di studenti o scrivere un buon romanzo?
Per me la seconda, perché ci sono tantissimi piano che si intrecciano e si annodano. Un romanzo può avere una trama avvincente ma una scrittura piatta; un personaggio simpatico, ma che non conosce alcuna evoluzione nella storia; un incipit potente, ma una tensione sempre più calante; un antagonista temibile, ma poco credibile, ecc.Gestire una classe, invece, mi sembra più semplice. Io ho una formula vincente: ama i tuoi alunni, e loro non ti deluderanno. Il più delle volte funziona.
Quali sono i personaggi dai quali si sente maggiormente influenzato o da cui trae ispirazione?
Mi piacciono gli outsider e le menti scomode, persone del calibro di Romain Gary, Carmelo Bene, Indro Montanelli, Pasolini, Don Milani, Moravia. Ho a noia il perbenismo e il conformismo del pensiero: quando vedo una mina vagante che dichiara guerra a questo stato di cose, a meno che non dica cose assurde, lo apprezzo.
Lei è un apprezzatissimo scrittore, cosa vuol dire dar vita a dei personaggi che rimangono impressi nell’immaginario del lettore?
Secondo me perché un personaggio rimanga impresso è necessario creargli un conflitto, farne un personaggio volitivo che combatta contro una sorte non generosa. Certo, la descrizione deve essere realista; certi i dialoghi non devono essere telefonati; certo non dovrà risultare antipatico, ma l’elemento più importante è il tormento di un conflitto interiore. Un esempio su tutti: Raskol'nikov di Delitto e castigo. Anzi due: Pereira, nel fortunato romanzo di Tabucchi.
Cambierebbe qualcosa nel mondo della scuola in cui si è formato?
Io ho studiato in un liceo scientifico, ho sbagliato tutto nella mia vita da studente. Poi ho corretto il tiro all’università , studiando Lettere prima e Filologia dopo. Non cambierei nulla, nella convinzione che i percorsi accidentati siano i più imprevedibili e fecondi. Tutte le persone interessanti che ho conosciuto nella mia vita sono tipi dalla vita travagliata e dalle scelte sbagliate. Un caso?
Quali sono i romanzi a cui si sente più legato?
Ne dico tre. Furore di Steinbeck, Il disprezzo di Moravia, Cecità di Saramago.
Che messaggio dà oggi il mondo della scrittura?
Faccio fatica a rispondere a questa domanda. Non credo esista “un mondo della scrittura”, come fosse una gilda. Esistono piuttosto mondi della scrittura, i cui pianeti sono gli scrittori. A me piacciono quei pianeti che denunciano le ingiustizie della nostra società e che, nel farlo, asfaltino le mie ridicole convinzioni.
C’è spazio in Italia per giovani scrittori talentuosi e se dovesse dare un consiglio appassionato a un aspirante scrittore, cosa gli direbbe?
Non ne avrei le phisique du role per farlo, quindi mi limito a dire solo una mia specie di fissazione nella scrittura. Mai essere banale, anche in una semplice frase, anche per la descrizione di una minuzia: cercare di dirlo diversamente. La penna, lo stile, fa veramente la differenza. Per me questo non è un ma il comandamento.
Il rapporto con la sua città Natale.
È un odi et amo. Ci sono cresciuto, ci ho vissuto fino a pochi anni fa, a Palermo. La amo e nessuno ne può parlare male, eccetto che me. Mi piace il rapporto simbiotico col mare, l’odore delle strade, la nenia del dialetto. Odio un certo lassismo, un certo disprezzo per la comunità , forse retaggio di secoli e secoli di dominazione borbonica. Qui ho dato il primo bacio della mia vita, ho detto la prima parola, ho guidato la prima bici, ho fatto per la prima volta a botte con uno, ho pianto per la prima volta, per la prima volta ho fatto l’amore. Nella visione della mia vita, di fronte agli occhi, io ho un filtro che si chiama Palermo.
Che cosa è troppo serio per scherzarci su?
Noi stessi, i ruoli che ci siamo dati, le maschere che abbiamo indossato. Non possiamo ridere su noi stessi, eppure dovremmo. Io trovo ridicoli quelli che si prendono sul serio, quelli che si raccontano di essere qualcuno, gli intellettuali che si vergognano a dire di non avere letto quel libro.
Ci parli del suo primo romanzo d’esordio, Di niente e di nessuno (Fazi, 2018), che ha vinto premi importantissimi conquistando critica e pubblico.
È stata una bella sorpresa. È un romanzo esile, nemmeno duecento pagine, non è che abbia venduto centomila copie. Eppure è andata bene, ha vinto molti premi, tra cui il Premio Biblioteche di Roma, premio Leggo Quindi Sono e il Premio Subiaco città del libro. Poi, dopo qualche mese, è arrivata l’edizione francese per Rivages, che ne ha comprato i diritti.
È piaciuto, e ne sono fiero. È una storia ambientata in una periferia feroce, Brancaccio, a Palermo. Ci sono pochi ingredienti, quelli giusti: il rapporto materno, la violenza, il calcio, la voglia di riscatto, la scuola, la tradizione.
Invece di cosa parla il suo ultimo romanzo Cuorebomba.
Cuorebomba è il prosieguo di Di niente e di nessuno. Il protagonista è ancora Rosario, l’ambientazione è ancora la periferia feroce di Brancaccio. La guerra invece è diversa: questa volta il ragazzino di appena sedici anni deve prendersi cura della madre ammalatasi di anoressia. Ma i servizi sociali interverranno per separarli. Da questo incidente scatenante comincia una moderna Odissea.
I suoi prossimi impegni?
Sto scrivendo il terzo volume della saga. Non so ancora se lo finirò, ci sono tante variabili, ma se tutto dovesse andare bene, ve ne regalerò una copia!
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