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Ritratto d'artista Raffaele Sperandeo e la fotografia come poesia quotidiana

apr 23, 2025 0 comments

 

Raffaele Sperandeo, conosciuto anche come Darkelrafi, è un fotografo con un’anima a cavallo tra il rigore del mondo aziendale e la leggerezza dell’immaginazione. Professionista nel campo del marketing, è nel 2020 che decide di dare piena forma alla sua passione per la fotografia: dapprima come viaggio personale alla scoperta della propria interiorità, poi come percorso artistico parallelo alla sua attività professionale.

Basta scorrere il suo profilo Instagram @darkelrafi per percepire l’intensità poetica del suo sguardo. Ogni fotografia è accompagnata da parole che invitano a rallentare, ad ascoltare, a lasciare spazio all’immaginazione. È un invito a guardare il mondo con occhi nuovi, tra sfocature, ombre e contrasti, dove la delicatezza dei fiori diventa un simbolo ricorrente. Una visione fatta di chiaroscuri, che riflette una personalità curiosa, entusiasta, affamata di conoscenza e sempre desiderosa di condividere.

In occasione della mostra Artists Diaries: a journey in a journal, ospitata da Hub/Art a Barcellona e organizzata in collaborazione con l’associazione artistica Young Art Hunter, Darkelrafi presenta il trittico Life is a Carnival, un’esplosione di colori e vitalità: fiori rossi, arancioni e gialli che celebrano la bellezza della vita in tutta la sua fragilità e forza.



Greta Zuccali: Definisci la tua fotografia come un viaggio interiore. In che modo l’oscurità e la chimica di cui parli nella tua biografia si inseriscono in questa esplorazione personale? E l’amore, in che modo influenza la tua visione e i tuoi soggetti?

Raffaele Sperandeo: L’origine del mio percorso nella fotografia affonda le sue radici in un’analogia sottile ma potente con il processo di sviluppo analogico, dove tre elementi fondamentali — oscurità, chimica e amore — diventano i cardini di un linguaggio personale e visivo.

La fotografia, per me, è prima di tutto un viaggio interiore. È uno spazio di esplorazione silenziosa, in cui ogni scatto diventa una traccia di ciò che vivo e percepisco.

L’oscurità ha sempre fatto parte del mio modo di guardare il mondo. Non la considero qualcosa di negativo, ma piuttosto un luogo fertile, un grembo di possibilità dove le emozioni più autentiche trovano voce e si trasformano.

La chimica, nella sua accezione più poetica e al tempo stesso tecnica, è il processo che trasforma il pensiero in immagine, ciò che è invisibile in qualcosa di tangibile. È alchimia pura, dove la visione prende forma.

E infine, c’è l’amore. Che sia rivolto a una persona, a un frammento di tempo, a una forma di bellezza effimera, è sempre il filtro attraverso cui osservo. L’amore rende ogni dettaglio più vivo, ogni istante più fragile e, proprio per questo, più urgente. È la tensione che tiene insieme il mio sguardo, il filo invisibile che lega tutte le mie immagini.


G.Z.: I tuoi soggetti spaziano da paesaggi urbani a ritratti di donne, visioni oniriche e macro di fiori. Come si interconnettono questi temi così diversi nel tuo immaginario?

R.S.: Il mio sguardo è il filo che tiene tutto insieme. Osservo il mondo con una fame visiva che mi accompagna da sempre. Un po’ per deformazione professionale, dopo anni nel mondo del marketing, un po’ per inclinazione naturale: sono attratto da tutto ciò che possiede quella che amo chiamare “materia emotiva”.

Ciò che accomuna le mie immagini è una ricerca instancabile dell’effimero, del fragile, del momento che sfugge. Che si tratti di un corpo, un fiore, una nuvola sospesa o una stanza immersa nella penombra, quello che cerco è l’anima dell’istante. Il silenzio che lo attraversa. La poesia che vi si nasconde.


G.Z.: Sei vissuto a lungo in Inghilterra e in Germania prima di stabilirti a Milano. In che modo queste diverse esperienze culturali e ambientali hanno influenzato la tua sensibilità fotografica?

R.S.: Ogni città che ho vissuto ha lasciato un segno nel mio sguardo. Credo che questa stratificazione di esperienze sia parte di ciò che rende le mie immagini ciò che sono oggi. Ho trascorso periodi significativi – per motivi di vita o professionali – in Polonia, Austria, Francia, e in città italiane come Torino, Firenze e, naturalmente, Napoli. Ogni luogo ha sedimentato dentro di me un diverso punto di vista, filtrato da matrici culturali, visive e linguistiche differenti.

Dall’Europa Centrale ho imparato ad apprezzare la malinconia, il rigore e la profondità silenziosa dei luoghi. L’Inghilterra mi ha regalato la luce grigia, le atmosfere sospese, quasi metafisiche. L’Italia, invece, è il luogo dove tutti questi elementi si intrecciano con il bisogno viscerale di bellezza, di narrazione, di calore umano.

E poi c’è Napoli, la mia città, il suo splendore disarmante, emotivamente complesso.

A essere sincero, nutro ancora una sorta di timore reverenziale nel fotografarla. Come se ogni scatto rischiasse di ridurla, di banalizzarla. Eppure il desiderio di raccontarla resta forte – e forse un giorno, chissà, riuscirò davvero a portarla con me in giro per il mondo, dentro un progetto fotografico che le renda giustizia.

G.Z.: Ci sono fotografi o correnti artistiche che ispirano particolarmente il tuo lavoro?
R.S.: Parlando di fotografia, in particolare di street photography, i miei riferimenti affondano saldamente le radici nella tradizione francese del primo Novecento. Henri Cartier-BressonBrassaï e Robert Doisneau sono per me delle vere e proprie pietre miliari: con la loro capacità di cogliere l’attimo, raccontare la quotidianità e restituire poesia alle strade, hanno definito un’estetica che ancora oggi trovo straordinariamente attuale. Il loro bianco e nero è intriso di umanità, silenzi e sguardi rubati – elementi che continuano a ispirarmi ogni volta che porto la macchina fotografica con me in città.

Tra i contemporanei, nutro una profonda ammirazione per Piero Gemelli. La sua eleganza senza tempo, sia nei soggetti umani che in quelli floreali, riesce a raccontare la bellezza con una delicatezza e una forza visiva che sento molto vicine alla mia sensibilità. Ho avuto anche l’onore e il piacere di scambiare qualche parola con lui in occasione del Mia Photo Fair di Milano di quest’anno, in cui ero presente fra gli artisti rappresentati da Young Art Hunters: un confronto breve ma prezioso, che mi ha lasciato nuovi spunti e suggestioni.

Un altro nome che tengo sempre sotto osservazione è quello di Bastiaan Woudt. Il suo lavoro mi affascina per l’uso del bianco e nero spinto al limite, per il minimalismo formale e i ritratti scultorei permeati di surrealismo, astrazione e simbolismo. Le sue immagini riescono a evocare l’essenza del soggetto, creando una narrazione visiva sospesa tra realtà e immaginazione. È un tipo di fotografia che, pur essendo contemporanea, sembra atemporale – e forse è proprio questo il suo potere.

Parallelamente, nutro un grande interesse per tutte le arti figurative. Mi affascina l’idea che linguaggi diversi possano contaminarsi e arricchirsi a vicenda. Proprio in questa direzione si muove uno dei miei prossimi progetti: sto lavorando a una possibile collaborazione con un pittore o una pittrice per realizzare opere ibride, in cui fotografia e pittura si fondano, dando vita a una doppia visione del soggetto. Un intreccio di codici visivi che, mi auguro, potrà restituire una lettura ancora più profonda e completa dell’immagine.

G.Z.: Potresti descrivere il tuo processo creativo? Come nasce un’idea per una fotografia e quale ruolo hanno pianificazione e improvvisazione?

R.S.: Spesso un’immagine nasce da un’emozione improvvisa, da un dettaglio che mi ossessiona, o da una frase che resta con me per giorni. Inizio a fotografare ben prima dello scatto vero e proprio: appunto, disegno, costruisco mentalmente. Poi, quando mi trovo finalmente davanti al soggetto, lascio andare tutto. È lì che entra in gioco l’improvvisazione – ed è lì che accade la magia.

La pianificazione ha il suo ruolo: serve a creare una cornice, a costruire un ambiente in cui poter lavorare. Ma ciò che rende viva una fotografia succede nel momento in cui smetto di controllare e inizio davvero a sentire. È come se fotografassi con la pancia, ma costruendo l’inquadratura con la testa. Una danza continua tra istinto e razionalità.

Due elementi guidano sempre il mio processo creativo.

Il primo è la sottrazione: eliminare il superfluo per isolare il soggetto e instaurare con esso una connessione profonda, quasi simbiotica. Il secondo è la ricerca costante di uno sguardo infantile, di quello stupore originario che ti fa osservare il mondo come fosse sempre la prima volta. Per questo spesso guardo attraverso vetri, superfici riflettenti, lenti che distorcono: mi aiutano a creare universi sospesi, in cui le forme si dissolvono in impressioni e i colori diventano emozioni.

Il risultato è una fotografia che non vuole descrivere, ma suggerire. Un invito a perdersi in visioni oniriche, in un altrove che sfugge al reale e accoglie lo spettatore nel cuore pulsante dell’immaginazione.

G.Z.: Come esperto in ambito marketing e come fotografo, come vedi l’arrivo dell’AI nell’ambito creativo?

R.S.: Tocchi un tema che mi sta particolarmente a cuore. Da circa due anni studio l’intelligenza artificiale: è una presenza ormai inevitabile, che non possiamo ignorare né ha senso demonizzare. Nel mio lavoro da marketer ne ho già colto le potenzialità: è uno strumento straordinario, capace di accelerare i processi, amplificare le possibilità creative, connettere dati e insight in modo innovativo.

Naturalmente, come ogni strumento potente, necessita di essere alimentato nel modo giusto e guidato con consapevolezza. Questo vale per ogni ambito – inclusa la fotografia. L’AI può infatti offrire nuove opportunità: può suggerire accostamenti inediti, generare visioni alternative, creare mondi immaginari in cui collocare i soggetti ritratti, o correggere piccoli errori tecnici.

Eppure, per quanto l’AI riesca a stimolare la mia immaginazione e a suggerire possibilità che forse non avrei considerato, alla fine torno sempre lì: al gesto, alla luce vera, a ciò che accade realmente davanti all’obiettivo. Perché è lì che c’è la vita. E la vita – quella autentica, vibrante, imprevedibile – non si genera con un prompt.

Artists diaries: a journey in a journal
Hub/Art
Carrer del Dr. Trueta, 183, Barcelona
17/04/2025 – 30/04/2025
Lunedì - Sabato h. 15:00-19:00
Visite fuori orario su appuntamento

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